domenica 29 agosto 2010

Nostra Signora della Guardia



‎29 Agosto, festa di Nostra Signora della Guardia
(apparsa il 29 agosto 1490 a Benedetto Pareto sul Monte Figogna):

"Maria, Mater gratiae,
Mater misericordiae,
Tu nos ab hoste protege,
et mortis hora suscipe.
Jesus tibi sit gloria,
...qui natus es de Virgine,
cum Patre et almo Spiritu
in sempiterna saecula. Amen"

sito del Santuario






mercoledì 25 agosto 2010

Risposte del Cardinale Presidente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” a certi quesiti




Risposte del Cardinale Presidente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” a certi quesiti

Dal momento che alla Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” sono giunte frequenti domande sulle ragioni del Motu Proprio “Summorum Pontificum”, delle quali alcune si fondano sulle prescrizioni del Documento “Quattuor abhinc annos” inviato dalla Congregazione per il Culto Divino ai Presidenti delle Conferenze Episcopali, il 3 ottobre 1984, il Presidente della stessa Commissione, l’Em.mo Card. Dario Castrillon Hoyos ha ritenuto opportuno dare le seguenti risposte:



Domanda: è lecito riferirsi alla Lettera “Quattuor abhinc annos”, per regolare le questioni attinenti alla celebrazione della Forma straordinaria del Rito Romano, cioè secondo il Messale Romano del 1962?

Risposta: evidentemente no. Poiché, con la pubblicazione del Motu Proprio “Summorum Pontificum” vengono a decadere le prescrizioni per l’uso del Messale del 1962, precedentemente emanate dalla “Quattuor abhinc annos” e, successivamente, dal Motu Proprio del Servo di Dio Giovanni Paolo II “Ecclesia Dei Adflicta”.

Infatti, lo stesso “Summorum Pontificum”, fin dall’art. 1, afferma esplicitamente che: “le condizioni per l’uso di questo Messale stabilite dai documenti anteriori “Quattuor abhinc annos” e “Ecclesia Dei” vengono sostituite”. Il Motu Proprio enumera le nuove condizioni.

Quindi non ci si potrà più riferire alle restrizioni stabilite da quei due Documenti, per la celebrazione secondo il Messale del 1962.

Domanda: Quali sono le sostanziali differenze tra l’ultimo Motu Proprio e i due precedenti Documenti attinenti a questa materia?

Risposta: La prima sostanziale differenza è certamente quella che ora è lecito celebrare la Santa Messa secondo il Rito straordinario, senza più il bisogno di un permesso speciale, chiamato “indulto”. Il Santo Padre Benedetto XVI, ha stabilito, una volta per tutte, che il Rito Romano consta di due Forme, alle quali ha voluto dare il nome di “Forma Ordinaria” (la celebrazione del Novus Ordo, secondo il Messale di Paolo VI del 1970) e “Forma Straordinaria” (la celebrazione del Rito gregoriano, secondo il Messale del B. Giovanni XXIII del 1962) e ha confermato che questo Messale del 1962 non è mai stato abrogato. Altra differenza è che nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare l’uno o l’altro Messale (art. 2). Inoltre, nelle Messe senza il popolo o con il popolo, spetta al parroco o al rettore della chiesa, dove si intende celebrare, a dare la licenza a tutti quei sacerdoti che presentano il “Celebret” dato dal proprio Ordinario. Se questi negassero il permesso, il Vescovo, a norma del Motu Proprio, deve provvedere a che sia concesso il permesso (cfr. art. 7).

E’ importante sapere che già una Commissione Cardinalizia “ad hoc”, del 12 dicembre 1986, formata dagli Em.mi Cardinali: Paul Augustin Mayer, prefetto della Congregazione per il Culto Divino, Agostino Casaroli, Bernardin Gantin, Joseph Ratzinger, William W. Baum, Edouard Gagnon, Alfons Stickler, Antonio Innocenti, era stata creata “per volontà del Santo Padre, allo scopo di esaminare gli eventuali provvedimenti da prendere per ovviare alla constatata inefficacia dell’Indulto Pontificio “Quattuor abhinc annos”( circa il ripristino della cosiddetta ‘S. Messa Tridentina’ nella Chiesa Latina col Messale Romano dell’Edizione tipica del 1962), emanato dalla Congregazione per il Culto Divino con Prot. N. 686/84 del 3 Ottobre 1984”. Questa Commissione aveva proposto al Santo Padre Giovanni Paolo II, già allora, a tale scopo, alcuni sostanziali elementi, che sono stati ripresi nel Motu Proprio “Summorum Pontificum”.

Mi permetto di fare una sintesi del verbale che presenta gli interventi degli Em.mi Cardinali per capire come i Documenti posteriori rispecchiano sostanzialmente la visione che una Commissione cardinalizia così importante ha avuto poco tempo dopo “Quattuor abhinc annos”. Infatti si è affermato che:

- “premura, desiderio e mente del Santo Padre (Giovanni Paolo II) era la promozione della concordia interna nella Chiesa e l'edificazione, per essa, dei fratelli”;

- “ciò andava realizzato anche attraverso la primaria ricomposizione della comunione nella pratica della "lex orandi", qual è la sana attuazione della riforma liturgica, pur nel doveroso rispetto delle legittime esigenze di gruppi minoritari ma, spesso, distinti non solo per piena ortodossia teorica ma anche per autentica esemplarità di pratica di vita cristiana intensamente vissuta e di sincero e devoto attaccamento alla Sede Apostolica”;

- “pertanto, doveva essere impegno di coscienza da parte di tutti: Vescovi, sacerdoti e fedeli, di rimuovere gli arbìtri scandalosi che una mal compresa "creatività" ha prodotto, dando luogo alle cosiddette "Messe selvagge" e ad altre dissacrazioni che hanno ferito molti dei predetti fedeli alienandoli dalla facilità d'accoglimento della riforma liturgica e dei nuovi Libri Rituali, compreso il Messale, erroneamente apparsi, purtroppo, e, proprio per tale inedificante desacralizzazione, quasi come causa di essa”.

Nella stessa Commissione si proponeva che:

- “venisse ribadito, da parte del Dicastero competente, che il Papa voleva la pacificazione interna tra tutti i fedeli delle Chiese locali mediante l'attuazione concreta della concessione da Lui fatta con l'Indulto”;

- “venisse eseguita, da parte dei Vescovi, la volontà del Sommo Pontefice ponendosi spiritualmente in sintonia con le Sue intenzioni”.

- “venisse data risposta adeguata, da parte dei Vescovi, a coloro che volessero scoraggiare l'attuazione dell'Indulto, presentandolo come motivo di divisione anziché di ricomposizione. La risposta doveva essere non polemica ma pastorale, spiegando, con delicatezza e pazienza, la lettera e lo spirito dell'Indulto”.

Inoltre si affermava con autorità che:

- “il vero problema in questione non sembrava essere tanto la conflittualità artificiale che l'Indulto intendeva risolvere, quanto piuttosto quella che era a monte di essa e che ne era stata la vera causa e, cioè, la conflittualità tra la retta attuazione della riforma liturgica ed il tollerato abusivismo prodotto dalla incontrollata fantasia. Quindi, oltre l'Indulto, si richiedeva un intervento di ben altro livello generale da parte della Santa Sede per eliminare il predetto abusivismo deformatore della riforma liturgica conciliare”;

- “l'Indulto, così come si presentava, per un verso, dava l'impressione che la Messa in latino, cosiddetta "Tridentina", fosse una realtà inferiore e di second'ordine, la quale veniva ripristinata solo per tollerante commiserazione di chi la richiedeva e, per altro, dava l'impressione, proprio con tutte le pesanti condizioni che conteneva, che la stessa Santa Sede la considerava tale e che non l'avrebbe concessa se non fosse stata costretta a farlo”;

- “occorreva ribadire e chiarire ai Vescovi la vera volontà del Santo Padre, la quale consisteva, non negativamente, in una concessione di tolleranza, ma, positivamente, in una vera e propria iniziativa pastorale presa non per quietare la reazione agli abusi, ma per ricomporre il dissidio in riconciliazione”.

- “bisognava togliere tutte le condizioni contenute nell'Indulto, per elimi­nare l'impressione avuta dai Vescovi che la Santa Sede non lo voleva e l'impressione da parte dei fedeli, che chiedessero una cosa quasi mal tollerata dalla Santa Sede”.

Negli interventi degli Em.mi Presuli emergeva che:

- “si era favorevoli alla concessione dell'Indul­to a tutti i fedeli e sacerdoti che intendessero servirsene "in aedificationem" e senza strumentalizzazione anticonciliare”;

- “occorreva fare capire ai Vescovi che l'Indulto corrispondeva ad una volontà del Papa da osservare e occorreva di far capire ai fedeli che dovevano chiedere con rispetto l'attuazione della volontà del Papa, cosicché i Vescovi, di fronte a richieste rispettose, non avessero più motivo di rifiutarsi”.

- “bisognerebbe domandarsi se per favorire la riconciliazione, era proprio necessario chiedere il consenso del Vescovo per celebrare la S. Messa in latino”;

- “come atteggiamento generale sarebbe da attenuare la rigorosi­tà delle condizioni limitative dell'Indulto stesso e di eliminare quelle aggiuntive dei Vescovi”;

- “per quanto riguardava la riserva ai Gruppi, poiché l'Indulto fu concepito per essi, bisognava mantenerla, ma iuxta modum, e, cioè, per un verso non intendendo per Gruppi tre o quattro persone e, per l'altro non proibendo che ai Gruppi che hanno preso l'iniziativa, possano, poi, aggiungersi altre persone nella pratica della concessione ottenuta”.

Nella stessa Commissione si faceva presente che:

- “non c’era difficoltà per consentire le letture in lingua volgare”;

- “quanto all'uso facoltativo del Lezionario, c’era qualche riserva, temendo qualche confusione a causa della non perfetta corrispondenza di esso ai calendari dei due Messali, mentre non si vedeva nessuna difficoltà per consentire l'uso dei Prefazi del nuovo Messale”.

- “sarebbero da togliere le condizioni aggiunte dai Ve­scovi ed anche quelle relative alle chiese non parrocchiali ed ai gruppi contenute nell'Indulto”.

- “premesso che il latino, come espressione di unità non può e non deve scomparire dalla Chiesa, e desiderando i Vescovi più di essere "aiutati" che di essere troppo "rispettati" nelle loro prerogative, occorreva venire loro incontro riducendo la complessa casistica condizionante dell'Indulto a criteri di maggio­re semplicità; si poteva così anche eliminare l'impressione che, con quelle condizioni, la S. Sede volesse far capire di aver concesso l'Indulto solo "obtorto collo”. Inoltre, nel far questo, si poteva evi­denziare la coerenza evolutiva anche dei provvedimenti pontifici correttivi ovviando a loro contraddittorie contrapposizioni”.

Citando quindi il n. 23 della "Sacrosanctum Concilium" “a proposito dei criteri che devono essere osservati nella conciliazione tra tradizione e progresso nella riforma liturgica, ed il n. 26 dello stesso documento conciliare, a proposito delle norme che devono pre­siedere a tale riforma, come derivanti dalla natura gerarchica e comunitaria della liturgia, si proponeva di insistere, nell'eventuale documento di revisione del­l'Indulto, sull'oggettività e non sull'arbitrarietà della attuazio­ne della riforma liturgica; ugualmente di far capire come, sia l'uso della lingua latina e sia quello dell'una o dell'altra edizione del Messale Romano, vada con­siderato nell'ambito di tale logica; di concedere, almeno nelle grandi città, che nei giorni festivi si possa celebrare in ogni chiesa una s. Messa in latino con libera scelta dell’una o dell’altra edizione tipica (1962 o 1980) del Messale Romano”.

- “si è proposto, altresì, di allargare la concessione dell’Indulto anche agli Ordinari, ai Superiori Generali o Provinciali religiosi ed altri”.

- “circa la necessità o meno dell’assenso del Vescovo per la celebrazione della S. Messa in latino, è stato ricordato che Paolo VI ebbe a dire che, per se, il Sacerdote, privatamente, dovrebbe celebrare in latino, in quanto la concessione fatta per l'uso delle lingue volgari è soltanto di ordine pastorale, per consentire ai fedeli di comprendere i contenuti del rito e, così, partecipare meglio”.

- “si è ribadita la necessità di lasciare libera l'opzione dell'uso dell'uno o dell'altro Messale per la celebrazione della S. Messa in latino”.

- “circa il tipo d'intervento si opterebbe per un nuovo documento pontificio (Papale) in cui, facendosi il punto sull'attuale reale situazione della riforma liturgica, si stabilisse chiaramente la citata libertà di scelta fra i due Messali in latino, presentando l'uno come sviluppo e non come contrapposizione dell'altro ed eliminando l'impressione che ogni Messale sia il prodotto temporaneo di ciascuna epoca storica”.

- “riferendosi alle precedenti premure espresse, si è ribadita la necessità di assicurare l'evidenza della logica linearità evolutiva dei documenti della Chiesa e della libera opzione tra i due Messali per la celebrazione della S. Messa e si è proposto di evidenziare che essi non possono essere considerati se non l'uno come sviluppo dell'altro giacché le norme liturgiche, non essendo delle vere e proprie "leggi", non possono essere abrogate ma surrogate: le precedenti nelle successive”.

Di tutto questo si è fatta relazione al Santo Padre.


(fonte: Ecclesia Dei)

"Attacco a Ratzinger" di Paolo Rodari e Andrea Tornielli



I tre nemici del Papa. "Attacco a Ratzinger" di Paolo Rodari e Andrea Tornielli
di Massimo Introvigne






Attacco a Ratzinger. Accuse, scandali, profezie e complotti contro Benedetto XVI (Piemme, Milano 2010) dei vaticanisti Paolo Rodari e Andrea Tornielli non è né una storia né un'analisi sociologica del pontificato di Benedetto XVI. Si tratta invece di eccellente giornalismo, e di una cronaca attenta ai particolari e ai retroscena degli attacchi contro Benedetto XVI, che dal 2006 a oggi ne hanno fatto il Pontefice più sistematicamente aggredito da un'incessante campagna mediatica degli ultimi anni.
Rodari e Tornielli elencano dieci episodi principali, e a proposito di ognuno forniscono dettagli in parte inediti. La prima offensiva contro il Papa inizia con il discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, il quale contiene una citazione dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo (1350-1425) giudicata da alcuni offensiva nei confronti dell'islam e dei musulmani. Ne nasce una grande campagna contro Benedetto XVI, alimentata sia da organi di stampa occidentali sia dal fondamentalismo islamico, che degenera in episodi violenti. A Mogadiscio, in Somalia, è perfino uccisa una suora.

Già in questo primo episodio l'analisi degli autori mostra all'opera tutti gli ingredienti delle crisi successive. Un buon numero di media, anzitutto occidentali, estrapolano la citazione dal contesto e sbattono la notizia della presunta offesa ai musulmani in prima pagina. Al coro di questi media - secondo elemento, che non va mai trascurato - si uniscono esponenti cattolici ostili al Papa, in questo caso personaggi come l'islamologo gesuita Thomas Michel, rappresentante a suo modo tipico di un establishment del dialogo interreligioso smantellato da Benedetto XVI per il suo buonismo filo-islamico tendente al relativismo. Intervistati dalla stampa internazionale questo cattolici lanciano un "attacco frontale a Benedetto XVI" (p. 26), essenziale per rendere credibili le polemiche della stampa laicista. Ma in terzo luogo Rodari e Tornielli non mancano di rilevare una certa debolezza nel sistema di comunicazione vaticano, molto lento rispetto alla velocità delle polemiche nell'era di Internet e non sempre capace di prevedere in anticipo le conseguenze delle parole più "forti" del Papa, prendendo per tempo le necessarie contromisure.

venerdì 20 agosto 2010

Albert Einstein


Albert Einstein (fisico e Premio Nobel per la Fisica)


“Essendo un amante della libertà, quando avvenne la rivoluzione nazista in Germania, guardai con fiducia alle università sapendo che queste si erano sempre vantate della loro devozione alla causa della verità. Ma le università vennero zittite, e non protestarono. Allora guardai ai grandi editori dei quotidiani che in ardenti editoriali proclamavano il loro amore per la libertà. Ma anche loro, come le università vennero ridotti al silenzio, soffocati nell'arco di poche settimane, e non protestarono.
Solo la Chiesa rimase ferma in piedi a sbarrare la strada alle campagne di Hitler per sopprimere la verità. Io non ho mai provato nessun interesse o stima particolare per la Chiesa prima, ma ora provo nei suoi confronti grande affetto e ammirazione, perché la Chiesa da sola ha avuto il coraggio e l'ostinazione per sostenere la verità intellettuale e la libertà morale. Devo confessare che ciò che io una volta disprezzavo, ora lodo incondizionatamente” .


(da Intervista di Albert Einstein, Time magazine, 23 dicembre 1940)

giovedì 19 agosto 2010

Il senso autentico del celibato ecclesiastico

"..Il celibato ecclesiastico è un sì definitivo.
E' un lasciarsi prendere in mano da Dio.
Darsi nelle mani del Signore, nel Suo Io.
E' così un atto di fedeltà e di fiducia..."



"Un grande problema della cristianità del mondo di oggi è che non si pensa più al futuro di Dio: sembra sufficiente solo il presente di questo mondo. Vogliamo avere solo questo mondo, vivere solo in questo mondo. Così chiudiamo le porte alla vera grandezza della nostra esistenza. Il senso del celibato come anticipazione del futuro è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente. (...) "

sabato 14 agosto 2010

San Massimiliano Maria Kolbe


MASSIMILIANO M. KOLBE - "Il folle dell'Immacolata"
14 agosto - Memoria liturgica

San Massimiliano M. Kolbe nacque l’8 gennaio 1894 a Zdunska-Wola, in Polonia, dove fu battezzato col nome di Raimondo.
Raccontò il Santo, ancora fanciullo, a sua madre: "La Santa Vergine mi è apparsa, tenendo due corone, una bianca e l’altra rossa. Mi ha guardato con amore e mi ha chiesto quale scegliessi; quella bianca significa che sarò sempre puro e quella rossa che morirò martire. Ho risposto: - Le scelgo tutte e due!".
Quello straordinario incontro fu l’inizio di una vita totalmente spesa al servizio della Madonna,
cui egli fece l’offerta totale di se stesso.
Dopo essere entrato nell’ordine francescano, col permesso dei superiori fondò l’associazione mariana Milizia dell’Immacolata, il cui fine era la conversione di tutti gli uomini per mezzo di Maria e i cui membri erano uniti dalla Consacrazione totale, illimitata alla Madonna.
Segno visibile di tale Consacrazione era la Medaglia Miracolosa, scelta dal Santo poiché ci è stata onata dall’Immacolata stessa. Egli ne distribuì un numero incalcolabile dovunque andò, nella certezza che Maria SS., che egli onorava anche col titolo di Mediatrice di tutte le grazie, avrebbe ottenuto da Dio innumerevoli guarigioni nel corpo, ma soprattutto nello spirito.
Celebrò la sua prima S. Messa il 29 aprile 1918 nella Chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, a Roma, sull’altare dove l’Immacolata era apparsa ad Alfonso Ratisbonne nel 1842.
Nel 1919 lasciò Roma, portando in Polonia due lauree, ma anche una salute gravemente minata a una forma di tubercolosi polmonare.
Tuttavia, nel 1922 Padre Kolbe fondò a Cracovia una rivista mensile dal titolo: ‘Il Cavaliere dell’Immacolata’, allo scopo di alimentare lo spirito e la diffusione della ‘Milizia’. Fra lo stupore di tutti, l’officina per la stampa del giornale, pur con vecchi macchinari, si riempì pian piano di molti giovani, desiderosi di condividere la vita francescana del Santo.
A Varsavia, grazie alla donazione di un terreno, Padre Massimiliano fondò ‘Niepokalanow’, che significa la ‘Città di Maria’. Negli anni successivi, al posto delle prime capanne vennero costruiti edifici in mattoni, la vecchia stampatrice fu sostituita da moderne tecniche di stampa e di composizione, da pochi operai si passò a ben 762 religiosi, mentre il ‘Cavaliere dell’Immacolata’ raggiunse la tiratura di milioni di copie, cui si aggiunsero altri sette periodici, tutti ideati da San Massimiliano.
Quindi, con il permesso dei superiori, il Padre si recò in Giappone.
Lì, dopo le prime incertezze, poté fondare a Nagasaki una nuova ‘Città di Maria’, con la tipografia in cui nel 1930 si stamparono le prime copie de ‘Il Cavaliere dell’Immacolata’ in lingua giapponese.
Nel 1939, però, i nazisti ordinarono lo scioglimento di Niepokalanow. Vi rimasero solo 40 frati, che trasformarono la ‘Città’ polacca in un luogo di accoglienza per feriti, ammalati e profughi della Seconda guerra mondiale. Dopo il rifiuto di prendere la cittadinanza tedesca per salvarsi - a causa dell’origine del suo cognome - il 17 febbraio 1941 San Massimiliano fu imprigionato con altri quattro frati.
Il 28 maggio venne poi trasferito al campo di sterminio Auschwitz, dove gli fu dato il numero 16670 e dove fu destinato ai lavori più umilianti, tra cui il trasporto dei cadaveri al crematorio.
Tuttavia, la sua dignità di sacerdote e di uomo retto primeggiò sempre fra i prigionieri, tanto che un testimone affermò: "Kolbe era un principe in mezzo a noi". Alla fine di luglio venne trasferito al Blocco 14, dove i reclusi erano addetti alla mietitura nei campi.
Poiché uno di loro riuscì a fuggire, secondo la spietata legge del campo dieci detenuti furono destinati al bunker della fame. Egli non venne scelto subito dalle SS, ma offrì volontariamente la sua vita in cambio di quella di un padre di famiglia.
In quella orribile prigione, il Santo preparò con la preghiera i suoi compagni di prigionia al momento più importante della loro vita: il passaggio dal tempo all’eternità.
Dopo 14 giorni di digiuno, le SS decisero di abbreviare la fine dei pochi superstiti con un’iniezione di acido fenico. Padre Kolbe tese il braccio dicendo: "Ave Maria", e quelle furono le sue ultime parole.
Era il 14 agosto 1941; il santo aveva solo 47 anni.
Fu canonizzato il 10 ottobre 1982 da Giovanni Paolo II, che lo definì "martire della carità e patrono del nostro difficile secolo".
La Chiesa ne celebra ogni anno la memoria il 14 agosto, giorno della sua nascita al Cielo.


Preghiera alla Vergine
di San Massimiliano Maria Kolbe O.F.M. Conv.


Chi sei, o Signora? Chi sei, o Immacolata? In non sono in grado di esaminare in modo adeguato ciò che significa essere "creatura di Dio". Sorpassa già le mie forze il comprendere quel che vuol dire essere "figlio adottivo di Dio".

Ma Tu, o Immacolata, chi sei? Non sei soltanto creatura, non sei soltanto figlia adottiva, ma sei Madre di Dio e non sei soltanto Madre adottiva, ma vera Madre di Dio.

E non si tratta solo di un'ipotesi, di una probabilità, ma di una certezza, di una certezza totale, di un dogma di fede.

Ma Tu sei ancora Madre di Dio? Il titolo di madre non subisce mutazioni. In eterno Dio Ti chiamerà: "Madre mia" ... Colui che ha stabilito il quarto comandamento, Ti venererà in eterno, sempre ... Chi sei, o divina?

Egli stesso, il Dio incarnato, amava chiamarsi: "Figlio dell'uomo". Ma gli uomini non lo compresero. Ed anche oggi quanto poche sono le anime che lo comprendono, e quanto imperfettamente lo comprendono!

Concedimi di lodarti, o Vergine Immacolata.

Ti adoro, o Padre nostro celeste, poiché hai deposto nel grembo purissimo di Lei il tuo Figlio unigenito.

Ti adoro, o Figlio di Dio, poiché Ti sei degnato di entrare nel grembo di Lei e sei diventato vero, reale Figlio suo.

Ti adoro, o Spirito Santo, poiché Ti sei degnato di formare nel grembo immacolato di Lei il corpo del Figlio di Dio.

Ti adoro, o Trinità santissima, o Dio uno nella santa Trinità, per aver nobilitato l'Immacolata in un modo così divino.

E io non cesserò mai, ogni giorno, appena svegliato dal sonno, di adorarti umilissimamente, o Trinità divina, con la faccia a terra, ripetendo tre volte: "Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio e ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen".

Concedimi di lodarti, o Vergine santissima.

Concedimi di lodarti con il mio impegno e sacrificio personale.

Concedimi di vivere, lavorare, soffrire, consumarmi e morire per Te, solamente per Te.

Concedimi di condurre a Te il mondo intero.

Concedimi di contribuire ad una sempre maggior esaltazione di Te, alla più grande esaltazione possibile di Te.

Concedimi di renderti una tale gloria quale nessuno mai Ti ha tributato finora.

Concedi ad altri di superarmi nello zelo per la tua esaltazione, e a me di superare loro, così che in una nobile emulazione la tua gloria si accresca sempre più profondamente, sempre più rapidamente, sempre più intensamente, come desidera Colui che Ti ha innalzata in modo così ineffabile al di sopra di tutti gli esseri.

In Te sola Dio è stato adorato senza paragone più che in tutti i suoi santi.

Per Te Dio ha creato il mondo. Per Te Dio ha chiamato pure me all'esistenza. Per quale motivo ho meritato questa fortuna?

Deh, concedimi di lodarti, o Vergine santissima!


In Rycerz Niepokalanej, aprile 1938, pp. 129-130, in Gli scritti di Massimiliano Kolbe eroe di Oswiecim e beato della Chiesa. trad. it., vol. III, Città di Vita, Firenze 1978, pp. 715-716.


(fonte: Alleanza Cattolica)

venerdì 13 agosto 2010

Preghiera di S.Pio XII a Maria Santissima Assunta





O Vergine Immacolata, Madre di Dio e Madre degli uomini!

1. Noi crediamo con tutto il fervore della nostra fede
nella vostra assunzione trionfale in
anima e corpo al cielo, ove siete acclamata Regina da
tutti i cori degli Angeli e da tutte le schiere dei Santi;
e noi ad essi ci uniamo per lodare e
benedire il Signore, che vi ha esaltata sopra tutte le
altre pure creature, e per offrirvi l'anelito della
nostra devozione e del nostro amore.
2. Noi sappiamo che il vostro sguardo,
che maternamente accarezzava l'umanità umile e
sofferente di Gesù in terra, si sazia in cielo alla
vista della umanità gloriosa della Sapienza increata, e
che la letizia dell'anima vostra nel contemplare faccia a
faccia l'adorabile Trinità fa sussultare il vostro cuore
di beatificante tenerezza;
e noi, poveri peccatori, noi a cui il
corpo appesantisce il volo dell'anima, vi supplichiamo di
purificare i nostri sensi, affinché apprendiamo fin da
quaggiù a gustare Iddio, Iddio solo, nell'incanto delle
creature.
3. Noi confidiamo che le vostre pupille
misericordiose si abbassino sulle nostre miserie e sulle
nostre angosce, sulle nostre lotte e sulle nostre
debolezze; che le vostre labbra sorridano alle nostre
gioie e alle nostre vittorie; che Voi sentiate la voce di
Gesù dirvi di ognuno di noi, come già del suo discepolo
amato: Ecco il tuo figlio;
e noi, che vi invochiamo nostra Madre,
noi vi prendiamo, come Giovanni, per guida, forza e
consolazione della nostra vita mortale.
4. Noi abbiamo la vivificante certezza
che i vostri occhi, i quali hanno pianto sulla terra
irrigata dal sangue di Gesù, si volgano ancora verso
questo mondo in preda alle guerre, alle persecuzioni,
alla oppressione dei giusti e dei deboli;
e noi, fra le tenebre di questa valle
di lacrime, attendiamo dal vostro celeste lume e dalla
vostra dolce pietà sollievo alle pene dei nostri cuori,
alle prove della Chiesa e della nostra patria.
5. Noi crediamo infine che nella gloria,
ove Voi regnate, vestita di sole e coronata di stelle,
Voi siete, dopo Gesù, la gioia e la letizia di tutti gli
Angeli e di tutti i Santi;
e noi, da questa terra, ove passiamo
pellegrini, confortati dalla fede nella futura
risurrezione, guardiamo verso di voi, nostra vita, nostra
dolcezza, nostra speranza; attraeteci con la soavità
della vostra voce, per mostrarci un giorno, dopo il
nostro esilio, Gesù, frutto benedetto del vostro seno, o
clemente, o pia, o dolce Vergine Maria.
(Pio Pp. XII)

giovedì 12 agosto 2010

LA COMUNIONE RICEVUTA SULLA LINGUA E IN GINOCCHIO



UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO PONTEFICE


La più antica prassi di distribuzione della Comunione è stata, con tutta probabilità, quella di dare la Comunione ai fedeli sul palmo della mano. La storia della liturgia evidenzia, tuttavia, anche il processo, iniziato abbastanza presto, di trasformazione di tale prassi. Sin dall’epoca dei Padri, nasce e si consolida una tendenza a restringere sempre più la distribuzione della Comunione sulla mano e a favorire quella sulla lingua. Il motivo di questa preferenza è duplice: da una parte, evitare al massimo la dispersione dei frammenti eucaristici; dall’altra, favorire la crescita della devozione dei fedeli verso la presenza reale di Cristo nel sacramento.

All’uso di ricevere la Comunione solo sulla lingua fa riferimento anche san Tommaso d’Aquino, il quale afferma che la distribuzione del Corpo del Signore appartiene al solo sacerdote ordinato. Ciò per diversi motivi, tra i quali l’Angelico cita anche il rispetto verso il sacramento, che «non viene toccato da nessuna cosa che non sia consacrata: e quindi sono consacrati il corporale, il calice e così pure le mani del sacerdote, per poter toccare questo sacramento. A nessun altro quindi è permesso toccarlo fuori di caso di necessità: se per esempio stesse per cadere per terra, o in altre contingenze simili» (Summa Theologiae, III, 82, 3).

Lungo i secoli, la Chiesa ha sempre cercato di caratterizzare il momento della Comunione con sacralità e somma dignità, sforzandosi costantemente di sviluppare nel modo migliore gesti esterni che favorissero la comprensione del grande mistero sacramentale. Nel suo premuroso amore pastorale, la Chiesa contribuisce a che i fedeli possano ricevere l’Eucaristia con le dovute disposizioni, tra le quali figura il comprendere e considerare interiormente la presenza reale di Colui che si va a ricevere (cf. Catechismo di san Pio X, nn. 628 e 636). Tra i segni di devozione propri ai comunicandi, la Chiesa d’Occidente ha stabilito anche lo stare in ginocchio. Una celebre espressione di sant’Agostino, ripresa al n. 66 della Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI, insegna: «Nessuno mangi quella carne [il Corpo eucaristico], se prima non l’ha adorata. Peccheremmo se non l’adorassimo» (Enarrationes in Psalmos, 98,9). Stare in ginocchio indica e favorisce questa necessaria adorazione previa alla ricezione di Cristo eucaristico.

In questa prospettiva, l’allora cardinale Ratzinger aveva assicurato che «la Comunione raggiunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall’adorazione» (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo 2001, p. 86). Per questo, egli riteneva che «la pratica di inginocchiarsi per la santa Comunione ha a suo favore secoli di tradizione ed è un segno di adorazione particolarmente espressivo, del tutto appropriato alla luce della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» (cit. nella Lettera This Congregation della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, del 1° luglio 2002: EV 21, n. 666).

Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia, ha scritto al n. 61:

«Dando all’Eucaristia tutto il rilievo che essa merita, e badando con ogni premura a non attenuarne alcuna dimensione o esigenza, ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. Ci invita a questo una tradizione ininterrotta, che fin dai primi secoli ha visto la comunità cristiana vigile nella custodia di questo “tesoro”. [...] Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero, perché “in questo Sacramento si riassume tutto il mistero della nostra salvezza”».

In continuità con l’insegnamento del suo Predecessore, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, il Santo Padre Benedetto XVI ha iniziato a distribuire ai fedeli il Corpo del Signore, direttamente sulla lingua e stando inginocchiati.

fonte: VATICAN.VAT

Che fine ha fatto il documento approvato dal Santo Padre ?...


Roma 22 agosto 2009
Il documento è stato consegnato nelle mani di Benedetto XVI la mattina del 4 aprile scorso dal cardinale spagnolo Antonio Cañizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino.
È l’esito di una votazione riservata, avvenuta il 12 marzo, nel corso della riunione «plenaria» del dicastero che si occupa di liturgia e rappresenta il primo passo concreto verso quella «riforma della riforma» più volte auspicata da Papa Ratzinger. Quasi all’unanimità i cardinali e vescovi membri della Congregazione hanno votato in favore di una maggiore sacralità del rito, di un recupero del senso dell’adorazione eucaristica, di un recupero della lingua latina nella celebrazione e del rifacimento delle parti introduttive del messale per porre un freno ad abusi, sperimentazioni selvagge e inopportune creatività. Si sono anche detti favorevoli a ribadire che il modo usuale di ricevere la comunione secondo le norme non è sulla mano, ma in bocca. C’è, è vero, un indulto che permette, su richiesta degli episcopati, di distribuire l’ostia anche sul palmo della mano, ma questo deve rimanere un fatto straordinario. Il «ministro della liturgia» di Papa Ratzinger, Cañizares, sta anche facendo studiare la possibilità di recuperare l’orientamento verso Oriente del celebrante almeno al momento della consacrazione eucaristica, come accadeva di prassi prima della riforma, quando sia i fedeli che il prete guardavano verso la Croce e il sacerdote dava dunque le spalle all’assemblea.
Chi conosce il cardinale Cañizares, soprannominato «il piccolo Ratzinger» prima del suo trasferimento a Roma, sa che è intenzionato a portare avanti con decisione il progetto, a partire proprio da quanto stabilito dal Concilio Vaticano II nella costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, che è stata in realtà superata dalla riforma post-conciliare entrata in vigore alla fine degli anni Sessanta. Il porporato, intervistato dal mensile 30Giorni, nei mesi scorsi aveva detto a questo proposito: «A volte si è cambiato per il semplice gusto di cambiare rispetto a un passato percepito come tutto negativo e superato. A volte si è concepita la riforma come una rottura e non come uno sviluppo organico della Tradizione».
Per questo le «propositiones» votate dai cardinali e vescovi alla plenaria di marzo prevedono un ritorno al senso del sacro e all’adorazione, ma anche un recupero delle celebrazioni in latino nelle diocesi, almeno durante le principali solennità, così come la pubblicazione di messali bilingui - una richiesta, questa fatta a suo tempo da Paolo VI - con il testo latino a fronte.
Le proposte della Congregazione che Cañizares ha portato al Papa, ottenendone l’approvazione, sono perfettamente in linea con l’idea più volte espressa da Jopseph Ratzinger quando ancora era cardinale, come attestano i brani inediti sulla liturgia anticipati ieri dal Giornale, che saranno pubblicati nel libro Davanti al Protagonista (Cantagalli), presentato in anteprima al Meeting di Rimini. Con un nota bene significativa: per l’attuazione della «riforma della riforma» ci vorranno molti anni. Il Papa è convinto che non serva a nulla fare passi affrettati, né calare semplicemente direttive dall’alto, con il rischio che poi rimangano lettera morta. Lo stile di Ratzinger è quello del confronto e soprattutto dell’esempio. Come dimostra il fatto che, da più di un anno, chiunque vada a fare la comunione dal Papa, si deve genuflettere sull’inginocchiatoio appositamente preparato dai cerimonieri.
(Fonte: Il Giornale)

«Martirio, risposta di libertà all'amore di Dio»


«Noi qui probabilmente non siamo chiamati al martirio ma nessuno è escluso dalla chiamata divina alla santità, a vivere in misura alta l'esistenza che implica sempre prendere la croce di ogni giorno su di sè, tutti, soprattutto nel nostro tempo in cui sembrano prevalere egoismo e individualismo, dobbiamo assumerci come primo e fondamentale impegno quello di crescere ogni giorno in un amore più grande a Dio e trasformare la nostra stessa vita per trasformare così il nostro mondo». Con queste parole Benedetto XVI, durante l'udienza generale tenuta nel cortile interno del Palazzo di Castel Gandolfo, è tornato a ricordare i martiri citando San Lorenzo Diacono, San Ponziano Papa e Sant'Ippolito Sacerdote ma anche santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, patrona di Europa e Massimiliano Maria Kolbe, entrambi morti ad Auschwitz.

«In questa settimana - ha detto - avevo già accennato nell'Angelus, facciamo memoria anche di alcuni santi martiri sia dei primi secoli della Chiesa sia di un tempo a noi più vicino come santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, patrona di Europa e Massimiliano Maria Kolbe, per soffermarmi sul martirio, una forma di amore totale a Dio. Dove si fonda il martitio? La risposta è semplice: sulla morte di Gesù, sul suo sacrificio supremo di amore consumato sulla croce affinchè noi potessimo avere la vita. Cristo ci ha donato sè stesso nel riscatto per molti e ciascuno di noi ogni giorno deve prendere la sua croce».

Il Papa ha citato il Vangelo «che dice chi non prende la propria croce e non mi segue non è degno di me, chi avrà tenuto per sè la propria vita la perderà e chi avrà perduto la propria vita per causa mia la troverà. È la logica del chicco di grano che muore per germogliare e portare la vita: Gesù stesso è il chicco di grano divino che si lascia cadere sulla terra, che si lascia spezzare, rompere nella morte e proprio attraverso questo si apre e può così portare il frutto nella vastità del mondo».

Il martire, ha proseguito, «segue il Signore fino in fondo accettando liberamente di morire per la salvezza del mondo in una prova suprema di fede e di amore, i martiri testimoniano la forza della profonda e intima unione con Cristo: questa - però - non è il risultato dello sforzo umano ma un dono della sua grazia che rende capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo, alla Chiesa e così al mondo. Se leggiamo le vite dei martiri rimaniamo stupiti per la serenità, il coraggio nell'affrontare la sofferenza e la morte. La potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza e nella povertà di chi si affida a lui e risponde solo in lui la propria speranza. Ma dobbiamo sapere che la grazia di Dio non sopprime o soffoca libertà di chi affronta il martirio: una libertà nei confronti del potere e del mondo esercitata in un supremo atto di fede, speranza e carità compiuto da chi sacrifica la propria vita per essere associato in modo totale al sacrificio di Gesù compiendo un grande atto di amore in risposta all'amore di Dio».

(fonte: Avvenire)

L'incredibile ipotesi di penalizzare i medici obiettori di coscienza

Eppure contro l'aborto è possibile una lotta comune


Leggendo le cifre dell’ultima relazione del Ministero della Salute al Parlamento sulla legge sull’aborto – obiettivamente impressionanti, perché mostrano un aumento esponenziale dell’obiezione di coscienza medica e paramedica contro questa pratica – alcuni esponenti sindacali sono tornati a chiedere misure per «la piena attuazione» della legge 194, cioè in buona sostanza misure di incentivi economici e di carriera per i medici abortisti, senza avvedersi che chiedere la piena attuazione di quella legge implica chiedere che non solo alcune, ma tutte le sue norme vengano correttamente applicate, a partire da quella dell’articolo 1, che sostiene che la Repubblica «difende la vita umana fin dal suo inizio» e comporta quindi che in Italia l’aborto volontario non sia «libero», ma purtroppo lecito in alcune precise circostanze, puntualmente descritte e regolate dalla legge stessa, restando invece illecito e punibile in tutti gli altri casi. E poiché nella legge è garantito a medici e paramedici il potersi dichiarare obiettori, anche quando la richiesta di aborto sia formalmente valida, ne segue che è anche sotto questo profilo che la legge deve trovare «piena attuazione», perché ogni forma di discriminazione nei confronti di chi si proclami obiettore, e ogni forma di privilegio concesso a chi obiettore non sia, non possono che avere la valenza di un indebito, se non subdolo, tentativo di manipolazione della coscienza morale e deontologica dei medici obiettori, in palese contraddizione col rispetto che la stessa legge 194 mostra di avere nei loro confronti.

Quello però che è davvero sconfortante è il dover prendere atto che i dati forniti dal Ministero della Salute invece di attivare nuove, serie, oneste riflessioni bioetiche sull’aborto vengano da alcuni utilizzati solo come occasione per riproporre posizioni ideologico-libertarie pro-abortiste, vecchie oramai di decenni. Ora, i numeri parlano chiaro: nel 2005 faceva obiezione all’aborto quasi il 59% dei ginecologi; nel 2008 si è arrivati al 71%. In alcune regioni, come nel Veneto e nel Lazio, la percentuale degli obiettori è arrivata a toccare negli ultimi anni l’80%. La legge sull’aborto è in vigore in Italia da più di trent’anni, eppure la stragrande maggioranza proprio di quei medici che dovrebbero essere chiamati ad applicarla si rifiuta di farlo. La ragione è evidente: quella dell’aborto è una pratica terribile, quali ne siano le ragioni, perché è finalizzata a uccidere una vita umana innocente e nessuno, più dei medici e in particolare dei ginecologi, è consapevole di questa verità. Di qui la decisione di così tanti tra loro di dichiararsi obiettori, una decisione che, significativamente, spesso matura con gli anni e che è condivisa da laici e cattolici. Nessun’altra spiegazione, meglio di questa, può essere addotta per spiegare i dati forniti dal Ministero, che vanno presi sul serio e altrettanto seriamente utilizzati.

Come utilizzarli, però, in concreto e nel modo migliore? Avanzo un’ipotesi. Stanno maturando i tempi perché abortisti e anti-abortisti (per usare formule stereotipate, ma immediatamente comprensibili) ricorrano a un processo di «apprendimento complementare» (secondo la formula proposta dal filosofo tedesco Jürgen Habermas nel suo noto dibattito con l’allora cardinal Ratzinger): un processo legittimato dal fatto che sia gli uni che gli altri valutano l’esperienza abortiva come una ferita, che il più delle volte si trasforma in una piaga che non è possibile risanare. Nei tanti anni che sono passati da quando è stata approvata in Italia la legge sull’aborto, quasi tutti gli anti-abortisti e i movimenti in cui essi militano sono giunti a convincersi dell’impossibilità di fronteggiare il fenomeno aborto, in una società secolarizzata, con una mera legislazione repressiva. Si è trattato di un «apprendimento» non facile, che ha consentito però il nascere di nuove e diverse forme di impegno per l’aiuto alla vita, per la difesa della famiglia, per l’educazione dei giovani a una sessualità responsabile. Coloro che si sono battuti per la legalizzazione dell’aborto dovrebbero a loro volta mettere a frutto l’esperienza di questi anni e arrivare a capire, prendendo sul serio l’impegno degli anti-abortisti, che l’aborto non è mai da pensare come un «diritto» e meno che mai come un «diritto fondamentale» e che, di conseguenza, non è combattendo l’obiezione di coscienza che si aiutano le donne tentate dal desiderio di ricorrere all’interruzione della gravidanza, ma attivando forme di sostegno umano, psicologico, sociale (e – perché no? – morale e spirituale). In questo senso gli abortisti hanno ancora molto da «apprendere». Nessuno può essere così ingenuo da pensare che sull’aborto si possa giungere a valutazioni morali condivise; ma che per quel che concerne la lotta contro l’aborto ci si possa muovere nello stesso senso, questo sì che è possibile – con un pizzico di ottimismo – pensarlo.
Francesco D'Agostino

(fonte: Avvenire)



Vi rimando ad un Sito davvero interessante sull'Aborto

lunedì 9 agosto 2010

Ars, il miracolo non fa rumore.







di Marina Corradi
Arrivando da Lione al tramonto può succedere di perdersi, cercando Ars. Fuori dall’autostrada, avanzando tra le colline dell’Ain, le strade si fanno strette, e solitari gli incroci. E quando finalmente arrivi al campanile, scopri che Ars è tutta lì: la chiesa, la vecchia canonica del Curato, due trattorie e poche case attorno, nella quiete di una campagna intatta. Se ti avventuri appena oltre il seminario trovi le pecore, e cavalli liberi al pascolo. Annusi l’aria, stupita: sa di fieno, sa di terra bagnata. Strano, ti dici, che a pochi chilometri il Tgv per Parigi divori i binari con un boato di tuono, e qui sia rimasta questa pace – come un’isola salva. Entri in un bar, la padrona è gentile, ma alle sue spalle appeso c’è scritto: «Non si fa credito a nessuno», antica diffidenza di piccolo paese. La scuola è quasi davanti al cimitero: le voci dei bambini che escono, all’una, ne riempiono il silenzio. In una vecchia locanda con le tovaglie a quadretti si mesce vino scuro, e un gatto si aggira fra i tavoli.

Un posto singolare, rimasto come fermo nel tempo. Se immagini le strade senza asfalto e luce elettrica, non doveva poi essere molto diversa l’Ars in cui arrivò nel febbraio 1818 Jean Marie Vianney, fresco di ordinazione, magro e minuscolo nella sua tonaca nera. La leggenda vuole che anche il curato si perse, tra le foschie di questa zona allora paludosa, chiamata "la Siberia dell’Ain". Giusto il posto in cui un vescovo poteva mandare il più semplice dei suoi preti, quel ragazzo che il seminario di Lione aveva scartato perché non masticava il latino. Arrivò qui, e si chinò a baciare questa terra nera. Oltre cent’anni dopo, nel Dopoguerra, un giovane prete polacco passò pellegrino da Ars e, saputo di quel gesto, lo volle ripetere nella sua prima parrocchia, a Niegowicze. Si chiamava Karol Wojtyla.

Quarant’anni restò ad Ars don Vianney, quarant’anni in questo orizzonte perso nell’infinito; contadini e bovari, e più bestie che anime in paese; e quaranta umidi inverni, con il vento ad insinuarsi tra le fessure degli infissi, ad annientare il calore del focolare.

La canonica è intatta. Muri in pietra, poche cose essenziali. Il focolare annerito, il letto, e un crocifisso scuro che sembra, di quella stanza nuda, il padrone. Accanto al letto un paio di scarpe nere, grosse, sformate, che devono avere fatto molta strada sulle sterrate fangose dell’Ain, quando il giovane Vianney andava a sostituire un parroco malato nei paesi attorno, e lasciava sul registro di battesimi e morti la sua firma. Miserieux, Savigneux, Rancé, uno sciame di villaggi che oggi in macchina raggiungi in un minuto, ma che a piedi sotto il solleone o nella nebbia dovevano essere invece ben lontani.

E in questo orizzonte di campagna profonda ti immagini quel piccolo prete, all’apparenza un uomo da nulla, che investe Ars come una folata di vento. Accoglie orfani, sfama miserabili, richiama al catechismo i bambini che i genitori volevano tenere dietro alle greggi; predica, benedice, ma soprattutto prega. C’è un’immagine che emerge dalle carte della canonizzazione: i contadini dell’Ain si stupirono perché quando alle cinque del mattino andavano a mungere le vacche, dietro la finestra della canonica brillava già una candela. A notte ancora fonda, Vianney pregava. «Non deve essere uno come gli altri», cominciavano a sussurrare in paese. E allora una mattina molto presto ti alzi quando sta sorgendo il sole, per vedere com’è, come era, l’alba di Ars, centocinquant’anni fa.

La pace delle colline a quest’ora quasi intimorisce. I passi sulla strada, nel silenzio assoluto, risuonano secchi, sonanti. Un’eco di muggiti da una stalla, una campana lontana, mentre le ultime ombre della notte si dileguano ai margini dei boschi. Era così l’alba del curato, quando con le sue scarpe grosse andava a benedire un moribondo? Uno sbalorditivo silenzio è il marchio di questo borgo di una remota campagna francese.

Sulla facciata della chiesa è rimasta aperta una porta, più piccola di quella principale. Se entri sei subito accanto a un confessionale antico, col gradino smussato dalle ginocchia dei penitenti. Quella porta l’aveva aperta il Curato per chi voleva confessarsi, ma si vergognava a farsi vedere. Lui stava in quella cella scura anche per 17 ore al giorno, perché la gente, alla fine, veniva a migliaia, anche da Parigi per una sua parola di perdono. Aveva, come lo avrebbe avuto padre Pio, il carisma della profezia: guardava in faccia un uomo, e leggeva. Carisma che affascina e spaventa, come di uno che si muova su una terra di confine, tra ciò che è della terra e ciò che è del cielo.

E attorno al campanile della quieta innocente Ars si aggiravano ombre fugaci. C’è ancora, nella canonica, un vecchissimo portone con un catenaccio arrugginito. È a quello che, di notte, capitava di sentire battere pugni rabbiosi, in un vociare ostile; ma se il curato si alzava, lì fuori non c’era nessuno. I parrocchiani che lo accompagnarono a perlustrare non vollero tornare, intimoriti: giacché non è possibile che chi batte e impreca contro a un portone non lasci, in una notte di neve, un’impronta. Vianney non se ne preoccupò più che tanto. A difendermi, disse, mi basta il Rosario.

Ma non è, il marchio di pace di questo villaggio, il segno di una vita senza battaglia. La battaglia, il Curato ce l’aveva nel cuore. Confidò solo una volta a una parrocchiana che cosa lo tormentava, e che cosa arginava in quelle notti passate a pregare: «La mia tentazione, è la disperazione». A tratti, la battaglia è disperata. Per tre volte, sfinito dall’angoscia, il parroco cerca di abbandonare la sua trincea nell’Ain. La gente lo va a riprendere, fa le barricate, perché non se ne vada. Morirà ad Ars, con tutto un paese attorno a vegliarlo.

E oggi, benché tanto tempo sia passato, tutto qui pare così stranamente com’era. Tra le stanze della canonica fischia ancora il vento, e il crocifisso ne sembra il muto padrone. Lione è ad appena quaranta chilometri, con gli svincoli e le auto in coda ai caselli nei week end. L’anima di Ars è in questa pace salvata, come un ultimo regalo.




(fonte: Avvenire)

domenica 1 agosto 2010

Vocazione e chiamata ....francescana

L'ORDINE FRANCESCANO SECOLARE


L'Ordine Francescano Secolare è costituito da cristiani che, per una vocazione specifica, mediante una Professione solenne, si impegnano a vivere il Vangelo alla maniera di S. Francesco, nel proprio stato secolare, osservando una Regola specifica approvata dalla Chiesa. L'Ofs è una delle tre componenti fondamentali della grande Famiglia Francescana che è costituita dai tre Ordini costituiti da San Francesco: il Primo Ordine (i frati), il Secondo Ordine (le religiose contemplative) e il Terzo ordine (i secolari e numerose forme di religiosi e religiose impegnati in attività apostoliche - TOR - che si sono formate dal filone principale dei secolari).
E' proprio la vocazione quella che distingue, dal punto di vista della motivazione, l'appartenenza al Ofs rispetto ad altre pie associazioni.
I francescani secolari, emettendo, dopo un periodo di formazione e di approfondimento spirituale e culturale, una vera e propria " professione", si impegnano a vivere questa vocazione in ogni situazione in cui si trovano sul piano famigliare e lavorativo.
I fratelli e le sorelle dell'Ordine Francescano Secolare cercano la persona vivente e operante di Cristo negli altri Fratelli, nella Chiesa, nella Parola di Dio, nella Liturgia
Annunciano Cristo con la Vita e la Parola; testimoniano nella vita quotidiana i beni futuri: nell'amore della povertà nell'ubbidienza nella purezza di cuore
I Francescani Secolari si impegnano a costruire un mondo più giusto, più evangelico e fraterno accogliendo tutti gli uomini come dono di Dio, lieti di stare alla pari con i più deboli, promuovendo la giustizia. Vivono lo Spirito di San Francesco nel lavoro e nella loro famiglia, in un gioioso cammino di maturazione umana e cristiana con i loro figli.
Portatori di pace sono fiduciosi nell'uomo e gli recano il messaggio della letizia e della speranza.


LA REGOLA

- La regola e la vita dei francescani secolari è questa: osservare il vangelo di nostro Signore Gesù Cristo secondo l'esempio di S. Francesco d'Assisi, il quale del Cristo fece l'ispiratore e il centro della sua vita con Dio e con gli uomini. Cristo, dono dell'Amore del Padre, è la via a Lui, è la verità nella quale lo Spirito Santo ci introduce, è la vita che Egli è venuto a dare in sovrabbondanza.
- I francescani secolari si impegnino, inoltre, ad una assidua lettura del Vangelo, passando dal Vangelo alla vita e dalla vita al Vangelo. I francescani secolari, quindi, ricerchino la persona vivente e operante di Cristo nei fratelli, nella sacra Scrittura, nella Chiesa e nelle azioni liturgiche. La fede di S. Francesco che dettò queste parole: "-Niente altro vedo corporalmente in questo mondo dello stesso altissimo Figlio di Dio se non il suo santissimo Corpo e il santissimo Sangue-" sia per essi l'ispirazione e l'orientamento della loro vita eucaristica. Sepolti e resuscitati con Cristo nel Battesimo che li rende membri vivi della Chiesa, e ad essa più fortemente vincolati per la Professione, si facciano testimoni e strumenti della sua missione tra gli uomini, annunciando Cristo con la vita e con la parola. Ispirati a S. Francesco e con lui chiamati a ricostruire la Chiesa, si impegnino a vivere in piena comunione con il Papa, i Vescovi e i Sacerdoti in un fiducioso e aperto dialogo di creatività apostolica .
Quali "-fratelli e sorelle della penitenza-", in virtù della loro vocazione, sospinti dalla dinamica del Vangelo, conformino il loro modo di pensare e di agire a quello di Cristo mediante un radicale mutamento interiore che lo stesso Vangelo designa con il nome di "-conversione-", la quale, per la umana fragilità, deve essere attuata ogni giorno. In questo cammino di rinnovamento il sacramento della Riconciliazione è segno privilegiato della misericordia del Padre e sorgente di grazia.
- Come Gesù fu il vero adoratore del Padre, così facciano della preghiera e della contemplazione l'anima del proprio essere e del proprio operare.
Partecipino alla vita sacramentale della Chiesa, soprattutto all'Eucaristia, e si associno alla preghiera liturgica in una delle forme della Chiesa stessa proposte, rivivendo così i misteri della vita di Cristo. La Vergine Maria, umile serva del Signore, disponibile alla sua parola e a tutti i suoi appelli, fu circondata da Francesco di indicibile amore e fu designata Protettrice e Avvocata della sua famiglia. I francescani secolari testimonino a Lei il loro ardente amore, con l'imitazione della sua incondizionata disponibilità e nella effusione di una fiduciosa e cosciente preghiera.


- Unendosi all'obbedienza redentrice di Gesù, che depose la sua volontà in quella del Padre, adempiano fedelmente agli impegni propri della condizione di ciascuno nelle diverse circostanze della vita, e seguano Cristo, povero e crocifisso, testimoniandolo anche fra le difficoltà e le persecuzioni.
- Cristo, fiducioso nel Padre, scelse per Sé e per la Madre sua una vita povera e umile, pur nell'apprezzamento attento e amoroso delle realtà create; così, i francescani secolari cerchino nel distacco e nell'uso una giusta relazione ai beni terreni, semplificando le proprie materiali esigenze; siano consapevoli, poi, di essere, secondo il Vangelo, amministratori dei beni ricevuti a favore dei figli di Dio. Così, nello spirito delle "-Beatitudini-", s'adoperino a purificare il cuore da ogni tendenza e cupidigia di possesso e di dominio, quali "-pellegrini e forestieri-" in cammino verso la Casa del Padre.
- Testimoni dei beni futuri e impegnati nella vocazione abbracciata all'acquisto della purità di cuore, si rederanno così liberi all'amore di Dio e dei fratelli.
- Come il Padre vede in ogni uomo i lineamenti del suo Figlio, Primogenito di una moltitudine di fratelli, i francescani secolari accolgano tutti gli uomini con animo umile e cortese, come dono del Signore e immagine di Cristo.
Il senso di fraternità li renderà lieti di mettersi alla pari di tutti gli uomini, specialmente dei più piccoli, per i quali si sforzeranno di creare condizioni di vita degne di creature redente da Cristo.
- Chiamati, insieme con tutti gli uomini di buona volontà, a costruire un mondo più fraterno ed evangelico per la realizzazione del Regno di Dio, consapevoli che "-chiunque segue Cristo, Uomo perfetto, si fa lui pure più uomo-", esercitino con competenza le proprie responsabilità nello spirito cristiano di servizio.
- Siano presenti con la testimonianza della propria vita umana ed anche con iniziative coraggiose tanto individuali che comunitarie, nella promozione della giustizia, ed in particolare nel campo della vita pubblica impegnandosi in scelte concrete e coerenti alla loro fede.
- Reputino il lavoro come dono e come partecipazione alla creazione, redenzione e servizio della comunità umana.
- Nella loro famiglia vivano lo spirito francescano di pace, fedeltà e rispetto della vita, sforzandosi di farne il segno di un mondo già rinnovato in Cristo.
I coniugati in particolare, vivendo le grazie del matrimonio, testimonino nel mondo l'amore di Cristo per la sua Chiesa. Con una educazione cristiana semplice ed aperta, attenti alla vocazione di ciascuno, camminino gioiosamente con i propri figli nel loro itinerario umano e spirituale.
- Abbiano inoltre rispetto per le altre creature, animate e inanimate, che "- dell'Altissimo portano significazione-", e si sforzino di passare dalla tentazione di sfruttamento al francescano concetto di fratellanza universale.
- Quali portatori di pace e memori che essa va costruita continuamente, ricerchino le vie dell'unità e delle fraterne intese, attraverso il dialogo, fiduciosi nella presenza del germe divino che è nell'uomo e nella potenza trasformatrice dell'amore e del perdono.
Messaggeri di perfetta letizia, in ogni circostanza, si sforzino di portare agli altri la gioia e la speranza.
Innestati alla Risurrezione di Cristo, la quale dà il vero significato a Sorella Morte, tendano con serenità all'incontro definitivo con il Padre.

fonte: Ofs Italia