sabato 30 aprile 2011

I rapporti prematrimoniali




di Corrado Gnerre


Nessuna forma di unione, al di fuori di quella Sacramentale, è in grado di garantire alla coppia la totalità e definitività della mutua donazione: ecco perché ogni rapporto prematrimoniale è in sé illegittimo e irresponsabile, perché può coinvolgere una terza vita.

Quando si ha a che fare con i giovani (e io sono uno che ha a che fare con loro ogni giorno) una delle questioni più sentite è quella attinente alla sessualità e quindi ai cosiddetti “rapporti prematrimoniali”.
Su questo punto molti catechisti non sanno come affrontare il discorso. Coloro i quali si sentono di difendere la posizione del Vangelo e del Magistero (purtroppo mi sembra non tutti... e questo dovrebbe far pensare) lo fanno utilizzando argomenti poco convincenti, nel tentativo di rendere il Precetto più “trattabile” e “adattabile” ad una certa mentalità del giovane contemporaneo.
Eppure di argomenti convincenti ce ne sono. Vediamo quali sono.

La concezione cristiana della sessualità

Prima di tutto bisogna spiegare cosa è la sessualità secondo il Cristianesimo. Per il Cristianesimo la sessualità è un valore, perché creata e quindi voluta da Dio. Per il Cristianesimo non è valore ciò che è conseguito dal peccato, ma ciò che Dio ha iscritto nella natura, in questo caso nella natura dell’uomo.
L’essere umano non è stato voluto da Dio come un angelo, cioè con una natura esclusivamente spirituale, bensì come unione di spirito e di corpo. Ora, la sessualità altro non è che la dimensione corporea della reciproca donazione di quell’uomo verso quella donna e di quella donna verso quell’uomo, che si sono uniti nel vincolo indissolubile del Matrimonio-sacramento.


I rapporti prematrimoniali negano la donazione

Da ciò si capisce l’illegittimità della sessualità prematrimoniale (e ovviamente anche di quella extra-coniugale). Infatti, tale sessualità non può essere vissuta nella dinamica della donazione. La donazione, infatti, ha bisogno della definitività. Non è definitivo ciò che è ancora temporaneo e provvisorio. Nessuno può negare il fatto che il fidanzamento non sia definitivo... se è fidanzamento è proprio perché non c’è alcuna definitività.
Né ha senso fare un’obiezione di questo tipo: “Ma chi ci dice che il matrimonio sarà definitivo?”. Obiezione che non regge: ci sarebbe contraddizione in ciò che afferma la Chiesa se essa ammettesse la solubilità del Matrimonio, cosa che invece non è.
Una volta ascoltai una bellissima definizione di castità prematrimoniale. Per giunta l’ascoltai non da un sacerdote o da un teologo, ma da un laico padre di figli. Una definizione che non solo ritengo precisissima, ma che fa ben capire quanto la castità, in un determinato senso, non si configuri come una forma di rinuncia fine a se stessa, bensì per costruire ciò che conta davvero. La definizione dice così: «La castità prematrimoniale è la capacità di rimaner fedeli al proprio marito e alla propria moglie ancor prima di conoscerli». Ricordando questa definizione, dico ai ragazzi: «Chi si sente di negare quanto sia importante rimaner fedele al proprio marito e alla propria moglie, al proprio fidanzato e alla propria fidanzata? E allora perché negare quanto sia importante la fedeltà anche nella prospettiva del futuro? Perché ritenere che la fedeltà sia un valore solo nella contemporaneità – conoscendo il marito o la moglie – e non anche nella prospettiva del futuro, cioè quando ancora non si sa chi sarà il compagno di vita che la Provvidenza vorrà?».
In merito alla questione dei rapporti prematrimoniali un’altra obiezione che solitamente si riceve è questa: “Ma perché privarsi del piacere della sessualità? Non è Dio stesso che l’ha inserita nella natura umana?”. La risposta non è difficile. Certamente Dio ha inscritto il piacere nella sessualità così come ha iscritto il piacere in ogni bisogno importante della natura umana. Ha iscritto il piacere anche nel mangiare. Immaginate cosa accadrebbe se non provassimo piacere a mangiare. Faremmo questo ragionamento: “Adesso devo fare gnam gnam con le mandibole... chi me lo fa fare? Mangerò stasera...”, e poi anche la sera posticiperemmo al giorno dopo e così via... e intanto moriremmo di inedia. E così anche per la sessualità: se non ci fosse la dimensione del piacere, l’umanità si sarebbe già estinta. Ma – e qui sta il punto – un conto è apprezzare la dimensione del piacere, altro è fare di questo la componente e il criterio fondamentali. Per ritornare all’esempio del mangiare: se devo mangiare per alimentarmi, va bene apprezzare il piacere del mangiare; ma se in quel momento non è bene che mangi per non danneggiare l’organismo, non posso e non devo mangiare solo per soddisfare un piacere che poi si trasformerà in un danno per la mia salute.


I rapporti prematrimoniali negano la responsabilità

Ma oltre a tale motivo, i rapporti prematrimoniali sono illeciti anche perché sono sempre irresponsabili. Il ragionamento è molto facile: il metodo contraccettivo più sicuro è la pillola antifecondativa, la quale ha una percentuale di “successo” (rattrista utilizzare questa terminologia, ma lo facciamo per farci capire) non superiore al 90%. Il che significa che i metodi anticoncezionali occasionali (quelli che solitamente si usano tra i giovani) hanno una percentuale di “successo” ben al di sotto del 90%. Ciò vuol dire che la sessualità fuori dal Matrimonio è sempre comunque irresponsabile: si “gioca” con una terza vita che non solo ha il diritto di nascere qualora venisse concepita, ma che ha anche il diritto di trovare un nucleo familiare stabile, un papà e una mamma.
Dunque, la sessualità pre ed extra matrimoniale è, oltre ad un grave peccato (e già questo dovrebbe bastare per capire), un atto sempre e comunque irresponsabile.


La visione di Don Bosco

Purtroppo di queste cose ormai si parla poco. Si prende in considerazione il dato sociologico e quasi ci si arrende. Si pensa: “Ormai è impossibile venirne fuori”. Ora, un simile atteggiamento non solo costituisce un grave peccato di omissione, perché la verità va sempre detta, ma anche una sorta di “complicità” che permette che tante anime si perdano per l’eternità. Sì, avete capito bene: si perdano per l’eternità! La Madonna alla piccola Giacinta di Fatima lo disse chiaramente: «I peccati che fanno andare più all’inferno sono i peccati della carne».
Ho già fatto qualche riflessione su questa frase in un altro mio articolo pubblicato proprio su questo Settimanale. Certamente i peccati della carne, tra i peccati mortali, non sono quelli più gravi. Ma sono quelli che non solo possono essere commessi più facilmente, ma anche quelli che più pervertono il pensiero. Bestializzando il comportamento, bestializzano anche il ragionamento. Giustamente si dice: “Non si agisce come si pensa, ma si finisce sempre col pensare come si agisce”. Per cui, una volta fatta fuori la Legge di Dio dal comportamento, si farà fuori Dio stesso dalle proprie convinzioni e dal proprio giudizio di vita.
C’è una visione che toccò a san Giovanni Bosco e che a riguardo è bene ricordare. La Provvidenza volle che il grande Santo dei giovani vedesse l’inferno per far sì che lui – che appunto stava dedicando la vita ai giovani – venisse a conoscenza di alcune cose importanti per la sua missione. Ecco come lo stesso Don Bosco racconta ciò che gli toccò: «Mi trovai con la mia guida (l’Angelo Custode), in fondo ad un precipizio che finiva in una valle oscura. Ed ecco comparire un edificio immenso, avente una porta altissima, serrata. Toccammo il fondo del precipizio; un caldo soffocante mi opprimeva, un fumo grasso, quasi verde, s’innalzava sui muraglioni dell’edificio e guizze di fiamme sanguigne. Domandai: “Dove ci troviamo?”. “Leggi – mi rispose la Guida – l’iscrizione che è sulla porta!”. C’era scritto: “Ubi non est redemptio!” cioè: “Dove non c’è redenzione!”. Intanto vidi precipitare dentro quel baratro prima un giovane, poi un altro ed in seguito altri ancora; tutti avevano scritto in fronte il proprio peccato. Esclamò la Guida: “Ecco la causa principale di queste dannazioni: i compagni, i libri cattivi e le perverse abitudini”. Gli infelici erano giovani da me conosciuti. Domandai: “Ma dunque è inutile che si lavori tra i giovani, se tanti fanno questa fine? Come impedire tanta rovina?”. “Coloro che hai visto sono ancora in vita; questo però è il loro stato attuale e se morissero, verrebbero senz’altro qui!”. Dopo entrammo nell’edificio; si correva con la rapidità del baleno. Lessi questa iscrizione: “Ibunt impii in ignem æternum!”, cioè: “Gli empi andranno nel fuoco eterno!”. “Vieni con me!”, soggiunse la Guida. Mi prese per una mano e mi condusse davanti ad uno sportello, che aprì. Mi si presentò allo sguardo una specie d’immensa caverna, piena di fuoco. Certamente quel fuoco sorpassava mille e mille gradi di calore. Io questa spelonca non ve la posso descrivere in tutta la sua spaventosa realtà. Intanto, all’improvviso, vedevo cadere dei giovani nella caverna ardente. La Guida disse: “La trasgressione del sesto Comandamento è la causa della rovina eterna di tanti giovani”. Io obiettai: “Ma se costoro hanno peccato, si sono però confessati”. “Si sono confessati, ma le colpe contro la virtù della purezza le hanno confessate male o taciute affatto. Ad esempio: uno aveva commesso quattro o cinque di questi peccati, ma ne disse solo due o tre. Vi sono di quelli, che ne hanno commesso uno nella fanciullezza ed ebbero sempre vergogna di confessarlo, oppure l’hanno confessato male e non hanno detto tutto. Altri non ebbero il dolore e il proponimento; anzi, taluni, invece di fare l’esame di coscienza, studiavano il modo di ingannare il confessore. E chi muore con tale risoluzione, risolve di essere nel numero dei reprobi e così sarà per tutta l’eternità... Ed ora vuoi vedere perché la Misericordia di Dio qui ti ha condotto?”. La Guida sollevò un velo e vidi un gruppo di giovani di questo Oratorio, che io tutti conoscevo, condannati per questa colpa. Fra essi vi erano di quelli che in apparenza tengono buona condotta. Continuò la Guida: “Predica dappertutto contro l’immodestia!”. Poi parlammo per circa mezz’ora sulle condizioni necessarie per fare una buona confessione e si concluse: “Mutare vita!... Mutare vita!”. “Ora – soggiunse l’Amico – che hai visto i tormenti dei dannati, bisogna che provi anche tu un poco di inferno!”. Usciti dall’orribile edificio, la Guida afferrò la mia mano e toccò l’ultimo muro esterno; io emisi un grido... Cessata la visione, osservai che la mia mano era realmente gonfia e per una settimana portai la fasciatura».
Penso che questo basti ed avanzi... per capire come nel nostro apostolato non dobbiamo trascurare questa importante questione.


fonte: Il Settimanale di Padre Pio

giovedì 28 aprile 2011

L'odio contro l' Ungheria


[Nella foto, re santo Stefano d'Ungheria, simbolo della storia cristiana del Paese magiaro]


Dei 23 paesi dell'Europa post-comunista (quella che va da Praga al Kazakistan) l'Ungheria è cronologicamente l'ultimo che ha deciso di darsi una nuova costituzione, che entrerà in vigore lunedì dopo che il capo dello Stato Pál Schmitt l'avrà controfirmata. Ma anziché rallegrarsi per l'uscita di scena dell'ultima costituzione stalinista d'Europa, entrata in vigore nel 1949 sotto il governo di Matyas Rakosi, “il miglior discepolo ungherese di Stalin”, come usava definirsi, l'uomo che fece incarcerare 100 mila oppositori politici (fra i quali il cardinale József Mindszenty condannato all'ergastolo) e giustiziarne 2 mila, politici, giornalisti ed osservatori europei e non solo stanno facendo a gara nell'accusare il nuovo testo, approvato da una maggioranza schiacciante di parlamentari (262 voti a favore e 44 contari, più una sessantina che hanno abbandonato l'aula al momento del voto), delle peggiori nefandezze.

Autoritarismo, sciovinismo, omofobia, fondamentalismo religioso, intolleranza, discriminazione, estraneità ai valori europei: non c'è insulto politico che non sia stato affibbiato al nuovo testo e alle forze politiche che l'hanno prodotto: il partito Fidesz del premier Viktor Orban e il Kdnp (Partito popolare cristiano-democratico), che in coalizione hanno conquistato i due terzi dei seggi. Caratteristica della maggioranza dei critici della nuova costituzione è però quella di affermare che l'Europa si trova davanti a una costituzione «varata e progettata da un solo partito di nome Fidesz» (Giorgio Pressburger sul Corriere della Sera del 20 aprile), una palese falsità che fa subito nascere sospetti sulle reali intenzioni di questi critici.

A fianco infatti di alcune critiche che un minimo di fondamento ce l'hanno, si innalza una montagna di accuse terribili ma pretestuose che sembra essere stata scatenata da puro odio ideologico per il fatto che la costituzione esalta l'identità nazionale ungherese e mette in evidenza le sue radici cristiane: due temi che vanno di traverso alle élites intente a produrre un'Europa senza radici e senza identità, fondata sul relativismo etico e culturale che permetta alle burocrazie politiche di Bruxelles e ai potentati finanziari di tutto il continente di dominare incontrastati.

La nuova costituzione abbassa l'età del pensionamento dei giudici da 70 a 62 anni, stabilisce che le Leggi cardinali che potranno essere approvate dal parlamento su alcune materie potranno essere modificate solo con maggioranze dei due terzi, prolunga i termini di alcune nomine, come quella del Procuratore generale o del Presidente del consiglio fiscale, riduce i poteri della Corte costituzionale sottraendogli i giudizi su materie finanziarie e fiscali. Chiari indizi di una maggioranza politica che vuole lasciare la propria impronta sulle istituzioni. Sta di fatto che la “rivoluzione costituzionale” era stata un cavallo di battaglia della coalizione Fidesz-Kdnp durante la campagna elettorale, e che i socialisti avevano ammonito l'elettorato che Orban, se vincitore, avrebbe fatto seguire i fatti alle parole. Dunque gli ungheresi hanno consegnato i due terzi del parlamento alla coalizione di centrodestra in piena coscienza: le leggi modificabili d'ora in poi solo con maggioranze qualificate sono il prodotto di un parlamento che per l'appunto le sta votando con maggioranza qualificata. Quanto ai poteri della Corte costituzionale, torneranno pieni quando il disavanzo pubblico, che attualmente è pari all'80 per cento del Pil, scenderà sotto il 50 per cento: una disposizione costituzionale che attirerà sull'Ungheria investimenti e investitori.

Poi ci sono tutte le accuse pretestuose. Secondo il Corriere della Sera, «la costituzione abolisce il nome di Repubblica Ungherese e conferisce quello di Paese Magiaro (Magyarorszag). Questo forse per ammonire certe minoranze tra le quali zingari ed ebrei?». Peccato che Magiaro e Ungherese siano la stessa cosa: infatti il nome abolito era Magyar Köztársaság. Quanto alle minoranze, nel preambolo della nuova costituzione si legge: «Consideriamo le nazionalità e i gruppi etnici che vivono in Ungheria parti costituenti della nazione Ungherese». Poi l'articolo H protegge le lingue delle minoranze etniche nel paese, l'articolo XIV dettaglia che nessuno può essere discriminato per la razza, il colore, ecc.

Sempre secondo il Corriere della Sera (un altro articolo), e secondo Amnesty International, i socialisti e i liberaldemocratici dell'Europarlamento, la nuova costituzione ungherese mette in pericolo il diritto delle donne all'aborto legale, perché in essa sta scritto: «La vita del feto sarà protetta dal momento del concepimento». Magari. In realtà si tratta quasi della stessa frase contenuta nella legge che regola l'interruzione delle gravidanze in Ungheria, in base alla quale dal 1953 ad oggi sono stati effettuati milioni di aborti: «La vita del feto dovrà essere rispettata e protetta dal momento del concepimento». Quella ungherese non è l'unica legge abortista nell'Europa dell'Est a contenere un articolo che serve solo da foglia di fico, col quale lo Stato si mette a posto la coscienza dichiarando che farà qualcosa per prevenire il ricorso all'aborto legale. Francamente preoccuparsi per la restrizione del diritto all'aborto in un paese dove le interruzioni di gravidanza equivalgono a quasi il 50 per cento delle nascite (attualmente 40 mila aborti procurati all'anno contro 90 mila nascite) suona sinistro.

Discorso simile sulla presunta “omofobia” della Costituzione: solo perché c'è scritto che «l'Ungheria proteggerà l'istituzione del matrimonio inteso come l'unione coniugale di un uomo e di una donna». Budapest, come molti altri paesi europei, dispone di una legge che riconosce le “unioni civili”, comprese quelle fra persone delle stesso sesso. I paesi europei che hanno formalizzato il “matrimonio omosessuale” sono solo sette su 47. Se c'è qualcosa che non va, non è nella costituzione ungherese, ma nella testa di chi formula questa critica.

Molto inchiostro è stato speso sul carattere ultranazionalista della costituzione. Dimenticando (ma guarda che strano) che l'unico partito di estrema destra presente in parlamento, lo Jobbik, ha votato contro. Tutto questo perché nel preambolo sta scritto: «Guidata dalla nozione di una singola nazione ungherese, l'Ungheria sentirà responsabilità per il destino degli ungheresi che vivono fuori dai suoi confini, contribuirà alla sopravvivenza e allo sviluppo delle loro comunità, sosterrà i loro sforzi per preservare la loro identità ungherese e promuoverà la cooperazione fra loro e con l'Ungheria». Peccato che la vecchia costituzione stalinista del 1949, contro la quale nessuno in Europa aveva finora obiettato, dicesse le stesse cose con parole diverse: «La Repubblica d'Ungheria si sentirà responsabile per il destino degli ungheresi che vivono fuori dai suoi confini e promuoverà il rafforzamento dei loro legami con l'Ungheria».

La verità è che tutte queste critiche denigratorie sono la punizione per il fatto che gli ungheresi hanno osato evocare nella nuova costituzione la loro storia cristiana: «Noi siamo orgogliosi del fatto che mille anni fa il nostro re, Santo Stefano, ha fondato lo stato ungherese su solide fondamenta, e reso il nostro paese parte dell'Europa cristiana. […] Riconosciamo il ruolo che il cristianesimo ha svolto nella conservazione della nostra nazione». Un riconoscimento che non va a danno dei credenti di altre religioni o dei non credenti, perché subito dopo il preambolo afferma: «Rispettiamo tutte le tradizioni religiose del nostro paese», e l'articolo VI recita: «Ognuno avrà diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Questo diritto darà a ciascuno la possibilità di scegliere liberamente o cambiare la propria religione o convinzione, a manifestarla o ad astenersi dal manifestarla, a praticare o insegnare la propria religione o credo attraverso atti e cerimonie religiosi, o in qualunque altro modo». Non sembra fondamentalismo cristiano. Ma pretendere un po' di informazione obiettiva e completa su argomenti come questi, nell'Europa d'oggi è diventato difficile.


Rodolfo Casadei - © labussolaquotidiana.it - 22 aprile 2011

sabato 23 aprile 2011

E' Risorto! E' veramente Risorto!





SEQUENZA
Alla vittima pasquale, s'innalzi oggi il sacrificio di lode.
L'agnello ha redento il suo gregge,
l'Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre.

Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.

«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?».
«La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea».

Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza.

***

Víctmæ pascháli láudes: ímmolent
Christiáni.
Agnus redémit oves: Christus
ínnocens Patri reconciliávit
peccatóres.

Mors et vita duéllo conflixére miràndo:
dux vitæ mórtuus, regnat vívus.
Dic nobis, María, quid vidísti in via?
Sepúlcrum Christi vivéntis: et glóriam
vidi resurgéntis.

Angélicos testes, sudárium, et vestes.
Surréxit Christus spes mea: præcédit
vos in Galilǽam.
Scímus Christum surrexísse a mórtuis
vere: tu nobis, victor Rex, miserére.


giovedì 21 aprile 2011

IL TERREMOTO DI DE MATTEI O DEL SISMA DELLA FEDE




(....) di Daniele di Sorco

Roberto De Mattei in Piazza San Pietro. Già fondatore di "Lepanto", è da sempre un sostenitore della Tradizione cattolica. Il sacerdote che gli è vicino ne è la prova.



1) IL MALE VIENE DAL PECCATO NON DA DIO. Per quanto riguarda il contenuto, l’intervento di De Mattei non ha nulla di eterodosso, anzi rispecchia in pieno la dottrina cattolica di sempre. In esso non si afferma che il terremoto del Giappone è necessariamente un castigo divino. Si dice semplicemente che gli eventi naturali – fausti o infausti che siano – dipendono in ultima analisi dalla causalità divina, che può permettere il male in vista di un maggior bene. Tale male può configurarsi anche (non soltanto) come una punizione, un ammonimento, non rivolto alle persone coinvolte, come se esse soltanto fossero peccatrici, ma all’umanità in generale. Che la radice morale del male sia il peccato, nel senso che è il peccato originale ad aver segnato l’ingresso del male nel mondo, è il dogma fondamentale della fede cattolica. Altrimenti dovremmo ritenere che il male è stato positivamente voluto da Dio, il che ripugna. Né possiamo pensare, in senso meccanicistico, che Dio abbia creato il mondo con le sue leggi per poi disinteressarsene, per cui lo svolgersi degli eventi naturali avverrebbe indipendentemente da Lui. Le cause naturali spiegano il come certe eventi si sono prodotti, non spiegano perché si sono prodotti, non spiegano la causa morale del fenomeno e il significato che esso assume nell’esistenza umana. Un Dio che crea il suo giocattolo imperfetto e poi gli dà la via, lasciandolo funzionare, non è un Dio onnipotente (perché il meccanismo è retto dal caso), né un Dio provvidente (visto che abbandona le sue creature ad un male fine a se stesso). Quindi dire che le catastrofi naturali, come tutti gli altri mali, sono permessi da Dio in vista di un maggior bene, cioè per la salvezza dell’anima, non solo è conforme alla dottrina cattolica, ma rispecchia l’assoluta bontà e onnipotenza di Dio. Certo, il perché certe volte la Provvidenza divina agisca in un certo modo ora ci sfugge: lo capiremo nell’altra vita. Ma ciò su cui si può essere sicuri è che essa agisca sempre per il meglio, sia di noi come singoli, sia dell’umanità in quanto ente collettivo.

Precisiamo questi concetti alla luce della Sacra Scrittura e della sacra Tradizione. A noi sfugge il perché dei singoli avvenimenti, ma non sfugge – in quanto cristiani – che i singoli avvenimenti hanno un perché. Alla luce del fine verso cui Dio ordina le vicende della storia, noi possiamo tentare di dare una spiegazione del perché di qualcosa, a patto che ciò avvenga a modo di ipotesi e con la consapevolezza che possiamo cogliere soltanto una minima porzione del problema, mentre la spiegazione completa la contempleremo in Dio solo nell’altra vita. Però bisogna ribadire con forza, con S. Agostino, che “non fit aliquid, nisi Omnipotens fieri velit, vel sinendo ut fiat, vel ipse faciendo” (Enchiridion, 95: ML 40, 276). Se infatti le cose materiali non dipendessero, in ultima analisi, da Dio, Dio non sarebbe onnipotente. Se invece dipendessero da Dio ma non fossero ordinate ad un fine buono (anche se a noi talora ignoto), Dio non sarebbe provvido. La Sacrae Theologiae Summa pubblicata dai Gesuiti spagnoli nel 1950 enuncia la tesi: “Universa quae condidit Deus providentia sua gubernat; eamque non effugiunt mala, nec physica, nec moralia”; e la classifica “De fide divina, catholica et definita” (Sacrae Theologiae Summa, Matriti, tom. II, ed. IV, 1962, pp. 168-170). Si tratta di un vero e proprio dogma. Del resto, l’universale provvidenza di Dio è stata sempre professata dalla Chiesa. I Padri scrissero opere su opere contro il fatalismo dei pagani. Sant’Agostino vi dedicò un intero libro, il “De civitate Dei”, senza timore di essere non compreso dai pagani o di urtare la sensibilità dei romani, che certo non venivano messi in ottima luce. Nella stessa direzione si mosse il Magistero ecclesiastico. Innocenzo III, nella professione di fede prescritta ai Valdesi, insegna che l’universalità della provvidenza appartiene al deposito della fede. E il Concilio Vaticano I, riecheggiando S. Agostino, definì: “Universa vero quae condidit Deus providentia sua gubernat”.

Quanto al male – e per male qui si intende anzitutto il male morale e poi il male fisico – la teologia cattolica insegna che esso è conseguenza del peccato. “Stipendium peccati mors” (Rom. 6, 23). Ovviamente non ci si riferisce soltanto ai peccati attuali del singolo, ma anche e in primo luogo al peccato originale, causa di tutti gli altri peccati: “Sicut per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et ita per peccatum mors, et ita in omnes homines mors pertransit, in quo [= quia] omnes peccaverunt” (Rom. 5, 12). E ancora: “Unius delicto mors regnavit per unum” (Rom. 5, 17), “per unius delictum in omnes homines condemnationem” (Rom. 5, 18). Dio non ha destinato l’uomo, neppure parzialmente, alla morte, al male e alla sofferenza, imperfezioni, queste, del tutto estranee allo stato di grazia ed innocenza in cui si trovavano i nostri progenitori. È col peccato che l’uomo, in quanto uomo, ha meritato la decadenza da questo stato, con tutto ciò che ne consegue: morte, sofferenza, male. Ma la misericordia di Dio è stata talmente grande da voler essa stessa riparare il nostro torto mediante l’incarnazione e il sacrificio del Verbo, che non ha tolto la pena temporale che meritiamo per il peccato, ma ha rimosso la pena eterna, ossia la privazione della visione beatifica. Ed è questo che veramente conta, visto che il vero male, il male per eccellenza, è il mancato raggiungimento del proprio fine ultimo. “Sed non sicut delictum, ita et donum; si enim unius delicto multi mortui sunt, multo magis gratia Dei et donum in gratia unius hominis Iesu Christi in plures abundavit. Et non sicut unum peccatum, ita et donum; nam iudicium quidem ex uno in condemndationem, gratia autem ex multis delictis in iustificationem” (Rom. 5, 15-16).

Se la morte, radice ed essenza del male morale, è conseguenza del peccato, e precisamente del peccato originale, non si vede per quale ragione il male fisico dovrebbe dipendere da altre cause; né si vede perché le calamità individuali e collettive non possano essere concepite anche nella prospettiva di un castigo, alla luce dei principi teologici che abbiamo esposto sopra. Del resto, l’antico Testamento ridonda di punizioni positivamente permesse da Dio in vista della conversione del suo popolo o di qualche persona in particolare, o ancora come esempio da lasciare ai posteri. Alcuni hanno obiettato che il nuovo Testamento modificherebbe radicalmente questo concezione. Ma un simile modo di pensare tradisce un’erronea nozione sia del valore della rivelazione mosaica sia del rapporto tra essa e il messaggio evangelico. I libri dell’antico Testamento, infatti, sono divinamente ispirati, al pari di quelli del nuovo. Pertanto la concezione dell’uomo, della natura, di Dio, che si trova espressa in essi, non dipende dalle elucubrazioni puramente umane – e quindi opinabili e discutibili – degli scrittori ebrei, ma è frutto della divina rivelazione. Certo, si tratta di una concezione ancora imperfetta. Gesù, come Egli stesso ha affermato, è venuto per compiere la legge, non per abolirla. Del resto, pensare che Dio si contraddica, rivelando prima qualcosa e poi successivamente smentendolo, non ha alcun senso. L’antico e il nuovo Testamento non sono opposti, ma complementari. Metterli in contrapposizione quanto alla sostanza della dottrina, significa cadere nell’errore degli antichi gnostici, i quali giungevano a sostenere che il Dio dell’antico Testamento fosse diverso dal Dio del nuovo. Nello specifico del caso che stiamo trattando, la rivelazione evangelica conferma in pieno quella mosaica, sia pur inserendola nella dimensione della Grazia. Oltre alle affermazioni di san Paolo sopra menzionate, si può ricordare l’episodio della guarigione del cieco nato, che qualcuno ha utilizzato per insinuare una presunta discontinuità tra la dottrina mosaica e quella evangelica. In realtà il passo, considerato nel suo vero senso, dimostra esattamente il contrario. Si dice infatti che il cieco non è cieco per peccati commessi da lui o dai genitori, ma si dice al contempo che Dio ha permesso questa ciecità perché si manifestasse appieno la sua gloria. Quindi Gesù non separa le cause seconde dalla causa prima, ma le connette nella prospettiva provvidenziale che aveva costituito il fondamento della religione mosaica e che continua a costituire il punto essenziale della religione cristiana.

Del resto, un Dio che non ha il controllo della natura da Lui stesso creata o che permette il male senza colpa morale da parte dell’uomo (ossia, in ultima analisi, senza il peccato originale), in che modo sarebbe più conforme alla concezione evangelica di misericordia e di amore? A noi sembra piuttosto che, in questo modo, si torni ad una concezione pagana della divinità, non onnipotente, non provvida e invece sottoposta, come tutto l’esistente, ad un fato cieco, capriccioso ed inesorabile. La dottrina tradizionale, al contrario, si accorda pienamente con l’assoluta onnipotenza e bontà divina, poiché tutto fa dipendere da Lui, e tutto – anche il male – riconduce alla volontà di provvedere al vero bene dell’uomo, ossia alla salvezza eterna. Tale volontà, com’è normale che sia, si esplica anche attraverso correzioni, ammonimenti, veri e propri castighi. Non dobbiamo aver timore di usare questa parola, visto che l’ha impiegata, più volte, la Madonna a Fatima. Sarebbe un buon padre, quello che non punisce mai i suoi figli, anche quando ce n’è bisogno? E sarebbe un buon padre colui che non ricorda ai suoi figli in che cosa consista il vero bene, che è la visione beatifica nel Paradiso? Dalla risposta, ovvia, a queste domande, si capisce facilmente come la dottrina tradizionale cattolica, efficacemente riproposta da De Mattei, non solo non contraddice all’infinito amore di Dio, ma ne è la sua diretta e necessaria conseguenza.

“OPPORTUNITÀ” O INERZIA?

Quando il mondo era ancora "cristiano" così vedeva anche il terromoto: in termini di Provvidenza divina
2) SE I CATTOLICI RINUNCIANO A SPIEGARE IN PUBBLICO LA LORO DOTTRINA. Vi sono alcuni, poi, che hanno sollevato un problema di opportunità. Secondo costoro, ciò che dice De Mattei è giusto, ma bisognerebbe guardarsi dall’affermarlo troppo chiaramente in pubblico, per evitare lo scandalo o la meraviglia di chi, essendo lontano dalla fede, non può comprendere fino in fondo la questione.

Ammettiamo il presupposto: la dottrina cristiana sulla causalità divina appare piuttosto complessa, non perché lo sia veramente, ma perché la mentalità odierna è completamente estranea ai fondamenti della sana filosofia e della divina rivelazione. Neghiamo, tuttavia, la conclusione che si cerca di trarne: appunto perché il mondo di oggi induce i cristiani a dimenticare un punto essenziale della propria fede, è necessario ribadirlo con forza, specialmente se esso è fonte di dubbi, disordientamento, confusione. Che cos’ha fatto De Mattei? Ha riaffermato la dottrina classica sull’origine del male e sulla provvidenzialità divina. In che occasione l’ha fatto? Parlando su un’emittente cattolica, ad un pubblico di cattolici. Non si capisce che cosa vi sia di inopportuno o di imprudente in tutto questo. Del resto, il problema dell’opportunità non si sarebbe posto neppure se avesse affrontato l’argomento su una testata laica. I cattolici, infatti, non devono in alcun modo vergognarsi della dottrina che professano, come se essa fosse irragionevole o sprovvista di solidi argomentazioni a suo favore. Certo, i problemi vanno affrontati con perizia e competenza. Ma vanno affrontati. Altrimenti si cade in un paradossale circolo vizioso, per cui non parlando mai di certe cose si pensa che esse non abbiano una spiegazione, e pensando che esse non abbiamo una spiegazione non se ne parla mai. Se i cattolici rinunciano a spiegare in pubblico la loro dottrina, lo faranno, al posto loro, i laicisti, deformando, alterando, ridicolizzando.

Grazie a questi presunti “motivi di opportunità”, ci troviamo di fronte a dei cristiani che definiscono “non conforme al Vangelo” una dottrina che la Chiesa ha sempre creduto, che separano il funzionamento del mondo (e quindi anche la creatura umana) dalla causalità divina, che negano il peccato come origine morale del male, che non attribuiscono al male permesso una funzione provvidenziale. Del resto, la sana dottrina non si conserva per forza di inerzia. Va continuamente ribadita, illustrata, difesa, come già san Paolo ordinava a Timoteo: “praedica verbum, insta opportune, importune; argue, obsecra, increpa in omni patientia et doctrina”, appunto perché “erit tempus cum sanam doctrinam non sustinebunt, sed ad sua desideria coacervabunt sibi magistros, prurientes auribus; et a veritate quidem avertent, ad fabulas autem convertentur” (2 Tim. 4, 2-4). La dottrina apostolica si oppone per diametrum all’inerzia di coloro che, per presunte ragioni di opportunità, ritengono che di certe cose bisognerebbe parlare il meno possibile, anche tra cattolici. Secondo l’Apostolo delle genti, predicare la verità, senza farsi condizionare dal rispetto umano, è un dovere che va perseguito con tenacia ed insistenza, soprattutto quando le persone sono più propense a dimenticarla e a rivolgere le proprie orecchie all’errore.

Si ha dunque l’impressione che, dietro al problema dell’opportunità, si celi invece quello “spiritus timoris” (2 Tim. 1, 7) che consiste nel tacere i punti più complessi della dottrina cristiana allo scopo di non urtare la sensibilità dei non credenti. Ma, in questo modo, quale effetto si ottiene? Non quello di evitare lo scontro coi laicisti, che anzi accuseranno i cattolici di aver studiatamente nascosto alcuni aspetti della loro fede perché essi stessi li ritengono incomprensibili e irrazionali. E neppure quello di tutelare la tranquillità dei credenti, i quali si troveranno sprovvisti di risposte ai loro interrogativi e di armi concettuali per rispondere alle obiezioni del mondo. Di fatto, si finisce per portara acqua al mulino dei militanti laicisti, che accusano i credenti di parzialità e irrazionalismo.

Riteniamo, dunque, che il prof. De Mattei, col suo intervento a Radio Maria, abbia compiuto un servizio utilissimo alla verità, facendo luce su una dottrina tanto importante quanto trascurata. Al tempo stesso, non riusciamo a capire le ragioni di quei cattolici, i quali, anziché reagire compattamente alle intemperanze dei laicisti, hanno, ancora una volta, scelto la strada dell’inerzia, del quieto vivere, della falsa opportunità, contribuendo in questo modo a rafforzare l’impressione di una loro sudditanza intellettuale nei confronti del mondo. “Non enim dedit nobis Deus spiritum timoris, sed virtutis et dilectionis et sobrietatis. Noli itaque erubescere testimonium Dei [...], sed collabora evangelio secundum virtutem Dei” (2 Tim. 1, 7-8).






post tratto da articolo su : Papalepapale

sabato 16 aprile 2011

IL PADRINO E LA MADRINA, RESPONSABILI NELLO SVILUPPO DELLA FEDE


"La scena vista nel film di Checco Zalone si ripete in molte realtà ecclesiali"


"Che bella giornata", l’ultimo film del comico Checco Zalone, può essere utilizzato quale fonte di ispirazione per meditare sulla "gestione" dei Sacramenti? Si, purtroppo! In una scena del suddetto film, infatti, ci si trova dinnanzi ad un sacerdote che, inizialmente, nega ad una ragazza non cattolica la possibilità di fare da "madrina" durante il Sacramento del Battesimo ma, dopo averci "opportunamente" ripensato, consente alla stessa di partecipare all’amministrazione del Sacramento stesso. La scena termina qui! Ipotizziamo, però, di trovarci al passaggio successivo: come si sarebbe svolta la scena? Come si sarebbe comportata quella ragazza, ad esempio, dinnanzi alla professione di fede fatta durante il rito? Ebbene, non essendo incorporata nella Chiesa, perché non unita ad essa dai vincoli della professione di fede, dei Sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione, certamente non avrà potuto proferir parola e avrà limitato il suo essere lì, sull’altare, a dispensare sorrisi per le foto. Come è chiaro, "il padrino o la madrina e l’intera comunità ecclesiale hanno una parte di responsabilità nella preparazione del Battesimo (catecumenato), come pure nello sviluppo della fede e della grazia battesimale" (Catechismo della Chiesa Cattolica, compendio n. 259). Non c’è nulla di più triste del dover constatare quanto, spesso e volentieri, sia incoerente e ambiguo l’atteggiamento verso i Sacramenti, attraverso i quali "Cristo comunica alle membra del suo Corpo il suo Spirito e la grazia di Dio che porta i frutti di vita nuova, secondo lo Spirito" (Ib. n. 146). Cosa può provare un non cattolico nel sentirsi porre la seguente domanda: "Credi nello Spirito Santo, nella Santa Chiesa Cattolica, nella comunione dei Santi, nella remissione dei peccati e nella resurrezione della carne?". Il vero problema è che la scena vista in quel film si ripete spesso e in moltissime realtà ecclesiali. Perciò, a questa domanda, dovrebbero provare a rispondere tutti quei parroci, complici di questa barbarie dottrinale, i quali si pongono in palese conflitto con la fede e con la stessa ragione. Proprio perché necessari alla salvezza, i Sacramenti sono tesori di valore troppo inestimabile e, per questo, non possono essere vissuti con sufficienza: "Per i credenti in Cristo, i Sacramenti sono necessari alla salvezza perché conferiscono le grazie sacramentali, il perdono dei peccati, l’adozione a figli di Dio, la conformazione a Cristo Signore e l’appartenenza alla Chiesa. Lo Spirito Santo guarisce e trasforma coloro che li ricevono" (Ib. n. 230). Infatti -scrive il Teologo Bruno Forte- "se Cristo è il Sacramento di Dio e la Chiesa è il Sacramento di Cristo, i Sacramenti sono le realizzazioni più intense dell’incontro con Dio nella Chiesa, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito Santo; sono parole e gesti compiuti in obbedienza alla volontà del Signore; sono eventi attraverso i quali la Chiesa celebra e vive l’incontro fra il Risorto e gli uomini. Perciò -prosegue- i Sacramenti costituiscono la continua dimostrazione della tenerezza e della compassione del nostro Dio, e ne celebrano la misericordia e il perdono, l’accondiscendenza alla nostra piccolezza e il desiderio di farci partecipi della sua vita divina". Probabilmente, non ci si rende conto che, ridicolizzando ad esempio il Sacramento del Battesimo, attraverso la possibilità che viene data ad un non cattolico di fare da padrino o da madrina, si offre l’opportunità ai non cattolici stessi di tentare di prendersi gioco della Santa Madre Chiesa. Essendo di primaria importanza il ruolo del padrino o della madrina nel Battesimo e prendendo atto del tentativo di veder ridicolizzato tale Sacramento, impartito ad un bambino, dobbiamo smentire con forza quanto viene diffuso dalle sette pseudocristiane, cioè che il battesimo amministrato ad un bambino non sia valido perché il soggetto, in quanto bambino, non è nelle condizioni di poter credere. Il padrino o la madrina deve per forza professare la fede cattolica trasmessa dagli Apostoli, specie per possedere la consapevolezza che il Battesimo con l’acqua, nel nome della Santissima Trinità, altro non è che l’atto voluto da Gesù per dare inizio all’esistenza della nuova creatura in chi si è aperto alla parola della vita. Il padrino o la madrina deve essere consapevole che la Santa Madre Chiesa è spinta a battezzare anche i bambini, ancora incapaci di un atto personale di fede, perché il Sacramento viene celebrato in forza della fede della comunità che presenta e accoglie il battezzato. Da parte sua, la comunità si impegna ad aiutare il battezzato a crescere nella coscienza del dono ricevuto e a testimoniarlo nella vita. Non concepire questo passaggio "chiave" equivale a non comprendere, ad esempio, il concetto di "responsabilità nella famiglia". E mi spiego meglio. Se rimproverassi i miei genitori, il mio padrino e la mia madrina, la mia comunità parrocchiale e il mio parroco per avermi battezzato da bambino, equivarrebbe al fatto che io biasimassi i miei genitori per avermi imposto il nome che porto -quindi un "fatto" che rimarrà per sempre- senza la mia accondiscendenza! La famiglia assume, nei riguardi del bambino, ogni decisione che reputa giusta per il suo bene e si impegna a mantenere la promessa di ogni responsabilità assunta, assieme al padrino o alla madrina. La consapevolezza del singolo individuo non c’entra un bel niente. E’ Dio che opera. Solo a lui dobbiamo anelare. La nostra volontà non ha alcun valore. Altrimenti, correremmo il rischio di bestemmiare contro lo Spirito Santo. La Chiesa, la comunità dei credenti, nella quale il bambino viene battezzato, è l’immagine vivente ed eccezionalmente emblematica dell’amore della Trinità Santissima, nel nome della quale ogni cosa viene fatta. Anche quel pezzo di pane e quelle gocce di vino, nella loro inconsapevolezza, diventano, per l’effusione dello Spirito Santo e per le mani del Sacerdote, vero cibo e vera bevanda sull’altare, cioè il Corpo e il Sangue di Cristo. A questo punto, è obbligatoria una piccola e provocatoria riflessione. Così come viene utilizzata, la figura del padrino o della madrina ha poco senso: forse, è solo un ponte per ottenere benefici terreni, prestigio e regali. Tutto questo, purtroppo, dimostra quanta sia poca la sensibilità di noi credenti verso i Sacramenti. Perché, allora, non pensare di creare in ogni parrocchia una sorta di "albo" dei padrini e delle madrine? Si tratterebbe di offrire alle persone che lo desiderino un’accurata catechesi, che metta loro nelle condizioni di poter fare da garanti ai fedeli che ricevono il Sacramento del Battesimo e quello della Confermazione. Il Sacramento, così, acquisterebbe la sobrietà che merita e non verrebbe ridotto ad un mero evento mondano, anche col pretesto di poter instaurare rapporti poco consonanti con il Vangelo. Il Sacramento è un fatto serio, nel quale Dio è presente attraverso l’opera della sua stessa Chiesa, che speriamo possa essere sempre più purificata, in quanto Sacramento di Cristo: "La Chiesa è in Cristo come un Sacramento, cioè n segno e uno strumento dell’intima unione con Dio e dell’unita di tutto il genere umano" (Lumen gentium, 1). In questo modo, probabilmente, non si vedranno più scene come quella del già citato film e, solo allora, specie sotto il profilo spirituale, potremmo dire: "Che bella giornata!".

Stefano Cropanese


venerdì 8 aprile 2011

La Messa antica non si può più negare


di Andrea Tornielli 08-04-2011

Nel 2007 Benedetto XVI pubblicò il motu proprio Summorum Pontificum, un documento che liberalizzava l’uso del messale antico, quello preconciliare del 1962, concedendone l’uso e stabilendo che laddove un gruppo di fedeli ne facesse richiesta, i parroci erano chiamati a venire loro incontro con una celebrazione ad hoc.


Con quella decisione, il Papa voleva venire incontro sia ai fedeli tradizionalisti rimasti sempre in comunione con Roma, i quali non senza molte difficoltà e avversità - nonostante l’indulto concesso da Giovanni Paolo II - erano rimasti legati al vecchio rito.

Mentre Papa Wojtyla aveva legato la concessione alla decisione del vescovo, Benedetto XVI è andato molto oltre, stabilendo che accanto alla forma ordinaria del rito romano vi fosse quella straordinaria rappresentata dal messale preconciliare. L’intento di Ratzinger, esplicitato nella lettera ai vescovi che accompagnava il motu proprio, era quello di favorire una riconciliazione tra le comunità e far sì che le due sensibilità liturgiche si aiutassero a vicenda: il rito antico avrebbe aiutato a sottolineare una maggiore sacralità nelle celebrazioni di quello postconciliare, quest’ultimo avrebbe aiutato a sottolineare la ricchezza di riferimenti biblici che rappresenta una delle maggiori novità introdotte dal Concilio Vaticano II.

Poco a poco, in diverse comunità sparse per il mondo, la Messa antica ha preso a essere celebrata. Non sono mancate le difficoltà: ci sono stati vescovi che hanno posto condizioni restrittive (non previste dal motu proprio papale, che è legge universale della Chiesa).

Proprio per chiarire i dubbi e permettere una più consapevole applicazione delle direttive di Benedetto XVI, sta per essere pubblicata un’istruzione della commissione Ecclesia Dei (dal 2009 messa sotto l’egida della Congregazione per la dottrina della fede e presieduta dal Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il cardinale William Levada). Il testo, approvato dal Papa, è finalmente ultimato e viene tradotto in questi giorni nelle varie lingue. Dovrebbe essere pubblicato nella prima decade di maggio e portare la data del 30 aprile, memoria di san Pio V.

L’istruzione con i suoi contenuti conferma che il motu proprio è legge universale della Chiesa e che tutti sono tenuti ad applicarla e a garantire che venga applicata. Afferma inoltre che va assicurata la possibilità della celebrazione in rito antico dovunque vi siano dei gruppi di fedeli che la richiedono. Nel testo non viene precisato alcun numero minimo di fedeli che devono costituire il gruppo.

Si dice ancora che è bene - in accordo anche con l’esortazione postsinodale sull’Eucaristia - che i seminaristi studino il latino. Ma il documento prevede anche che conoscano la celebrazione secondo la forma antica. Il “sacerdos idoneus” per la celebrazione con il messale preconciliare non occorre che sia un latinista provetto, ma che sappia leggere e capisca ciò che legge ed è chiamato a pronunciare durante il rito.

Una delle novità più importanti contenuta nel documento è questa: la Pontificia commissione Ecclesia Dei viene giuridicamente costituita con l’istruzione come l’organismo chiamato a dirimere le questioni e le controversie. Avrà la facoltà di decidere in nome del Papa, e rappresenterà dunque l’istanza a cui ricorrere per quei gruppi di fedeli che incontreranno difficoltà nell’ottenere la celebrazione della messa antica.

I vescovi non non dovranno né potranno promulgare norme che restringano le facoltà concesse dal motu proprio, o ne mutarne le condizioni, come invece è accaduto in qualche diocesi. Sono chiamati invece ad applicarlo.

Secondo l’istruzione può essere celebrato anche il Triduo pasquale in rito preconciliare là dove ci sia un gruppo stabile di fedeli legati alla liturgia antica. Gli appartenenti agli ordini religiosi possono usare i messali con i rispettivi riti propri preconciliari.

Il rito ambrosiano non viene citato nell’istruzione: il motu proprio infatti si applica soltanto al rito romano (Ecclesia Dei non è competentesul rito ambrosiano, sul quale ha invece giurisdizione la Congregazione del Culto divino). Ciò però non significa che il motu proprio, o meglio, che la chiara ed esplicita volontà papale non sarà applicata nella diocesi di Milano.

È sempre accaduto, con la riforma liturgica, ma prima ancora con i cambiamenti introdotti nei riti della Settimana Santa del 1954 da Pio XII, che il rito ambrosiano abbia fatto proprie istanze e modifiche, seppure in tempi successivi. Ed è possibile che - stante l’evidente volontà del Papa di rendere disponibile per tutti i fedeli il rito antico, visto l’inquadramento giuridico precisato nel documento sull’applicazione del motu proprio di imminente pubblicazione, in considerazione del fatto che anche l’ambrosiano è un rito latino riformato nel postconcilio - possa essere studiato in un prossimo futuro un documento analogo che estenda il motu proprio Summorum Pontificum anche alla diocesi di Milano.