mercoledì 28 dicembre 2016

Erode è ancora tra noi.

Un bell'articolo di Clauda Cirami pubblicato nella pagina di Notizie Provita 




Chi celebra la festa dei Martiri Innocenti, il 28 dicembre, pensa alla famosa strage come a un evento lontano, passato, simbolico. Invece ci sono moderni Erode – vivi e con un certo seguito – che sostengono l’aborto perché ritengono le vite dei bambini senza valore.

Immaginare i bambini ancora nel grembo andare incontro alla morte causata da un aborto volontario è terribile. Negli anni, però, è stata oltrepassata anche un’altra terrificante frontiera: il divieto di sopprimere un bambino già nato. L’infanticidio a tutti gli effetti viene perpetrato in modo legale, con il consenso di medici e genitori, principalmente a causa di gravi malattie o disabilità permanenti, ma già c’è chi lo giustifica per cause più futili.

In molti hanno pensato subito al paragone con Sparta. Secondo la tradizione, nella città-stato del Peloponneso il gruppo sociale più potente, gli spartiati, abbandonava sul monte Taigeto i figli nati con problemi fisici, condannandoli a morte. Un criterio di efficienza motivava questa scelta: gli spartiati, guerrieri, che detenevano il potere, erano numericamente inferiori agli altri gruppi sociali. Erano dunque “condannati” alla perfezione e a ben dosare tempi e risorse.

Il paragone è azzardato? No. Anche oggi un sottinteso criterio di efficienza motiva i sostenitori dell’aborto e di questa pratica turpe: in una società fondata su “valori” quali bellezza, giovinezza, salute – in cui malattia e disabilità sono messe al bando – chiunque non è in linea con questa pressante richiesta di perfezione è guardato con sospetto e, spesso, fatto oggetto di proposte da “soluzione finale”. A Sparta, però, non si trinceravano dietro motivi umanitari, né soprattutto abbiamo la certezza che ciò avvenisse davvero: recenti studi sembrano disconfermare questa tradizione. Ciò che invece accade oggi è reale e, in nome di una presunta libertà individuale e di un malinteso senso di pietà, si pretende di disporre della propria vita e di quella altrui con arroganza prometeica. Già Giovanni Paolo II aveva sottolineato: «Si delinea e consolida una nuova situazione culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e — se possibile — ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell’opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l’impunità, ma persino l’autorizzazione da par- te dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l’intervento gratuito delle strutture sanitarie» (Evangelium Vitae, n. 4).

Parliamo dall’eutanasia neonatale, che uccide più bambini di quanto crediamo.
Come ricorda il New England Journal of Medicine, riportando altri studi, nei Paesi Bassi il 45% dei neonatologi ha ammesso di aver soppresso bambini. Negli ultimi anni, a fornire le linee guida per tale pratica è il Protocollo di Groningen che «contiene cinque criteri principali di ammissibilità dell’eutanasia: 1) diagnosi e prognosi devono essere certe, 2) devono essere presenti sofferenze incurabili e insopportabili, 3) si deve ottenere una seconda opinione di conferma da parte di un medico indipendente, 4) entrambi i genitori devono dare il consenso informato e 5) la procedura deve essere eseguita con attenzione, in ottemperanza agli standard medici» (Micromega, 9/13). Una rigida procedura che sembrerebbe fatta per evitare abusi, ma che ha dato il via a una pratica fuori controllo, e che tace sull’abuso più grande: togliere la vita a un bambino.

Di recente, poi, è stato presentato in Olanda un documento (Decisioni mediche sulle vite dei neonati con gravi malformazioni) in cui si fa riferimento anche alla sofferenza dei genitori nel vedere il protrarsi di un’agonia, per giustificare una maggior celerità nell’uccisione. Che sia necessario anche il consenso dei genitori rende la situazione paradossale: coloro che generano la vita si trasformano in collaboratori dell’esecuzione di una sentenza di morte.
Nessuno afferma che crescere un bambino malato o disabile sia un impegno da poco, emotivamente, fisicamente ed economicamente. La sofferenza di un padre e di una madre deve essere compresa, e non si deve giudicare con durezza lo scoramento quando si presenta: la vita dei bambini, però, è al di sopra delle sofferenze e delle difficoltà che vivono i genitori e deve essere tutelata, anche nei casi più complessi e dolorosi.

La legalizzazione dell’eutanasia neonatale per cause gravi non è però l’unico orrore. Il peggio, infatti, è arrivato nel febbraio 2012, quando due ricercatori italiani, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, che lavorano a Melbourne, hanno teorizzato che non solo la gravità delle condizioni, ma anche motivi non strettamente legati alla salute, come condizioni psicologiche, sociali o economiche sfavorevoli possono determinare l’aborto post nascita (la soppressione di bambini già nati).

Terribile? Senz’altro. Ma anche profondamente coerente: gli stessi motivi che valgono per l’aborto di bambini nel grembo – dicono i due – devono valere anche nel caso dell’aborto post nascita. Perché un bambino può essere un problema prima e dopo. Due, dunque, i punti fondamentali di questa teoria: 1) il feto e il neonato si equivalgono; 2) come per l’aborto, anche l’aborto post nascita può essere praticato indipendentemente dalle condizioni di salute del bambino. Per questo motivo, i due autori non prediligono il termine eutanasia: infatti, «l’interesse principale di chi muore non è necessariamente il criterio principale per la scelta, contrariamente a quanto accade nel caso dell’eutanasia» (n. d. T, Journal of Medical Ethics, 02/12). Invitati in un incontro a Torino nel 2013, i due hanno ribadito il loro pensiero: «Se pensiamo che l’aborto è moralmente permesso perché i feti non hanno ancora le caratteristiche che conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle stesse caratteristiche, dovrebbe essere permesso anche l’aborto post-nascita», lamentandosi anche dell’accoglienza non proprio calorosa che la loro teoria ha ricevuto presso l’opinione pubblica (Avvenire, 12/01/13). Ispirati dall’opera di Peter Singer, uno dei teorici delle più perniciose ideologie mortifere, gli allievi hanno superato il “maestro”.

Del resto – e chi ha buon senso lo sa – accettare come normale qualcosa di estremamente grave e sbagliato è solo il primo passo verso l’abisso. Certo, i due rifiutano il termine di infanticidio perché «lo status dell’individuo ucciso è più simile a quello del feto che a quello del bambino» (Il Foglio, 13/05/13). Ma non ha paura di usare questo termine Eduard Verhagen. Questo pediatra olandese, sostiene che l’infanticidio (o l’eutanasia neonatale) sia addirittura preferibile all’aborto perché dopo la nascita è superiore il livello di conoscenza che si ha riguardo ad un bambino e c’è più tempo per poter decidere di sopprimerlo (Il fatto quotidiano, 08/05/13).

Ecco perché è necessario ribadire l’impegno per la vita nel grembo materno: se non abbiamo rispetto per la vita nascente, non ne avremo nemmeno per la vita che è già venuta al mondo. Come giustamente ha sostenuto la Congregazione per la Dottrina della fede (Dichiarazione sull’aborto procurato, 18/11/74): «Dal momento in cui l’ovulo è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora».

Claudia Cirami

foto: dal web

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